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La città eterna raccontata dallo sguardo poetico e artistico di ventisei autori, diversi per generazione, indole e poetica, e più di sessanta attori, tra invettive e dichiarazioni d’amore, tra vita e Teatro.

Corrado Augias

Corrado Augias

Sembra che scorrano sotto i nostri sguardi, come vene tortuose, le strade e le piazze di Roma. Sembra che il vortice di voci, sguardi, e movimenti diventino improvvisamente riconoscibili, presenti. È la frenetica sinfonia evocata dalle parole di Corrado Augias che, nel prologo La capitale mancata, viaggia, tra memoria e poesia, nelle storiche contraddizioni della città eterna: rovinosa e malinconica bellezza, che non potrà mai essere solo una capitale.
Si apre così, la prima parte di Ritratto di una Capitale – ventiquattro scene di una giornata a Roma, un progetto di Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri, quest’ultimo anche regista: dodici brevi pièce in scena al Teatro Argentina fino al 22 dalle ore 18 a notte inoltrata, nelle quali Roma, unica protagonista, dipinge la sua quotidianità in un “polittico teatrale” attraverso ventisei autori e più di sessanta attori.
La scena si spalanca, scarna, spogliata di quinte, mostrata nella sua nuda struttura, e continuamente riempita, svuotata, e attraversata dall’energia vitale di personaggi, oggetti, musiche – dal vivo – a cura di Mokadelic, immagini, e storie. Culla di emozioni dirompenti, il palcoscenico è un crudo e spietato occhio che si posa di volta in volta sui quartieri della città, attraversa i parchi dell’Esquilino, i vicoli bui vicino a Villa Ada, i ponti sopra il Tevere, gli angoli di Piazza Bologna, per coglierne la realtà in tutta la sua drammatica e assurda concretezza.
Uno sguardo che parte dal degrado della periferia, fatto di pestaggi, colpi di pistola, spaccio, per penetrare le sofferenze d’identità ambigue, sconosciute, e smarrite: come Cassandra (Francesco Montanari) e Marco (Giorgio Caputo) – lei (in)felice trans, lui “Bello come un dio”, poliziotto infiltrato e vittima di un’attrazione inaspettata –, come i due “Orfanelli”, l’anziano Fortunato (Claudio Angelini), che ricorda la guerra tra giochi d’infanzia e rastrellamenti, e Khaliq (Simon Mokonnen) che la giovinezza l’ha perduta nella fuga dall’Africa, come la convulsa voce di Eleonora Danco che corre – da Trastevere a San Lorenzo – denunciando l’inciviltà umana.

Leo Gullotta. Foto Giuseppe Scrugli

Leo Gullotta. Foto Giuseppe Scrugli

Sono corpi ricoperti di cicatrici da un passato scongiurato, eppure nostalgicamente desiderato, invocato come antidoto a un presente frastornato e martoriato da prepotenza, immigrazione, indifferenza e individualismo: sintomi di un disordine mentale (prima che urbano) che ci rende tutti figli di nessun luogo. Sì, perché i romani – d’origine o d’adozione –, abitanti (in)coscienti di uno spazio ricco di nomi e monumenti ri-conosciuti dal mondo intero, hanno imparato a disumanizzarsi, a colmare di carne senz’anima i siti pubblici (ospedali, metropolitane, locali notturni), rendendoli non-luoghi dove non c’è più interesse a domandare “Tu come stai?”, perché vecchiaia e malattia sono sinonimi di inutile e dispendiosa attesa, dove futilità e rabbia repressa sono sufficienti e giusti motivi per scatenare la violenza (meglio se verso lo straniero), e dove sotto la crosta elegante dei quartieri “alti” si nasconde lo squallore morale di adolescenti – e delle loro madri – che non riconoscono più la differenza tra nome con nickname, istruzione e prostituzione.
Ma Roma è anche – e ancora – il territorio meraviglioso dove le giovani speranze si ribellano alla crisi sognando progetti futuri, dove, nella magia dei riflessi delle acque del Tevere, possiamo sederci accanto a Domenico (Leo Gullotta) e volare con l’immaginazione a un passo dalle stelle, e dove, dall’alto delle colline, la vista può abbandonarsi al delicato splendore di tramonti e panorami che solo gli angeli conoscono. Perché Roma è tutto questo e molto di più, e in questi dodici respiri teatrali scopriamo un metamorfico e misterioso essere vivente, pulsante di vita caotica, d’istanti inafferrabili, di volti scomparsi, di suoni assordanti e inascoltati. Un’indecifrabile ed eterna poesia che non può e non potrà mai essere definita (solo) una capitale.

Nicole Jallin

Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina, 52 – Roma
Tel. 06 684 00 03 11 / 14 – http://www.teatrodiroma.net/
Orari:
martedì 18 novembre
Parte prima
dalle ore 18 alle ore 24
con due intervalli di 20 minuti

mercoledì 19 novembre
Parte seconda
dalle ore 18 alle ore 24
con due intervalli di 20 minuti

giovedì 20 novembre
Parte prima replica
dalle ore 18 alle ore 24
con due intervalli di 20 minuti

venerdì 21 novembre
Parte seconda replica
dalle ore 18 alle ore 24
con due intervalli di 20 minuti

sabato 22
Maratona – Parte prima e Parte seconda
dalle ore 15 alle ore 03 (del 23 novembre) con tre intervalli, due da 20 minuti e uno da 40 minuti

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