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Nell’ambito dell’inchiesta condotta dal nostro giornale per indagare il rapporto tra arte e istituzione carceraria, abbiamo incontrato l’attore e regista che ha ispirato e coprodotto il film “Cesare deve morire”, Orso d’Oro a Berlino, per conoscere la sua esperienza con i detenuti di Rebibbia.                                                  

Fabio Cavalli

Fabio Cavalli

Fabio Cavalli è laureato in Filosofia e diplomato all’Accademia dello Stabile di Genova. Attore, regista, autore, scenografo, produttore, curatore, ha collaborato con i maggiori protagonisti della scena italiana (Enrico Maria Salerno, Franco Zeffirelli, Alberto Lionello, Maurizio Costanzo, Sandro Sequi, Mario Missiroli) e con teatri come l’Eliseo e il Quirino dei quali ha curato la programmazione di teatro sociale. Come autore ha vinto il Premio Internazionale Teatro e Scienza (1996), il Premio Lazio Teatro – Fondi La Pastora (1998), il Premio Sicilia 2001, il Premio Anima per il Teatro 2009. Fabio Cavalli è il referente artistico del progetto del teatro nel carcere di Rebibbia, a Roma, sezione Alta Sicurezza. Avviato nel 2000, il progetto è sostenuto, oltre che dalle istituzioni, dall’Associazione “La Ribalta” Centro Studi e Archivio Storico Enrico Maria Salerno. Dal 2002 dirige la Compagnia dei Liberi Artisti Associati del Carcere di Rebibbia. Nel 2011 i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno basato il loro ultimo film, Cesare deve morire, proprio sul lavoro di Fabio Cavalli con la Compagnia dell’Alta Sicurezza di Rebibbia. Il film ha vinto l’Orso d’oro alla 62a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, 5 David di Donatello tra cui Miglior Film e Miglio Produzione, ha ricevuto il Nastro d’Argento 2012 ed è stato candidato italiano agli Oscar 2012.[1]

Cosa l’ha spinta ad iniziare l’attività teatrale in carcere?
Il caso. Più di dieci anni fa un amico che conosceva il mio lavoro di regista e autore mi propose di dare una mano ad un gruppo di detenuti dell’alta sicurezza di Rebibbia nuovo complesso che sentivano l’esigenza di dare un senso al vuoto penitenziario attraverso il teatro. Così entrai in carcere per la prima volta. Credevo di fare qualcosa di utile per uomini che avevano sbagliato e la stavano pagando davvero cara. Ero curioso e timoroso di quella situazione tanto estranea alla mia vita e tanto complessa. Avrei avuto di fronte a me boss criminali. Entrai nel reparto e venni chiuso in una stanza con venti di loro. Provavano a mettere in scena Napoli Milionaria di Eduardo, imitando lo spettacolo visto in videocassetta. Assistetti alla prova della scena della borsa nera sotto il letto di Gennaro Iovine, con l’arrivo del commissario e la recita della veglia funebre sotto i bombardamenti americani. Nella confusione, non credo di aver mai visto tanto teatro in tutta la mia vita. Fu così che non riuscii più a staccarmi da quel mondo, da quel contesto: l’unico dove il teatro abbia ancora un senso ed una necessità primigenia. Oggi a Rebibbia abbiamo tre compagnie teatrali, una band musicale e un centro europeo di formazione sullo spettacolo che coinvolge più di cento detenuti. Nel nostro grande teatro abbiamo accolto 40.000 spettatori negli ultimi 5 anni. Il teatro si colloca fra i primi 7 a Roma per presenze di pubblico (60% di studenti delle scuole superiori). In scena abbiamo portato Shakespeare, Dante, Bruno, Cechov, Tolstoj, Eduardo, Pirandello e Aristofane per una totale di 20 produzioni. Molti dei nostri attori sono ora professionisti delle scene “libere” e molti tornano dentro per lavorare con noi. Su 380 solo 4 sono rientrati per nuove condanne.

Cosa significa per Lei fare teatro in carcere?
Significa dare un senso ad un mestiere, un’arte, un artigianato che ha completamente smarrito il suo senso. Una comunità di uomini che cerca riscatto attraverso la bellezza, la parola, il gesto armonico, la costruzione di un lessico “alto” ed “altro” rispetto alla subcultura d’origine, ma sempre rigorosamente valorizzando la gergalità dialettale, il suono antico della terra d’origine, nobilitato dalla parola altissima dei poeti. Questo è ciò che dovrebbe accadere in ogni teatro, “libero” o “recluso”. Nel primo non accade più da tempo. Le platee italiane si svuotano (-10% di biglietti SIAE), i giovani ignorano lo spettacolo dal vivo, gli “artisti” sono ormai sempre più dei volontari che si distinguono dagli “amatori” per la presunzione di saper fare arte. Nel luoghi del disagio, al contrario, le platee si riempiono, gli spettatori si stupiscono e si commuovono, riconoscono la bellezza ed il dolore inscenati nella povertà assoluta, come qualcosa di proprio. Avviene la catarsi. Al di là delle ricadute sociali del fare teatro in carcere, al di là del principio della cosiddetta rieducazione, sui palcoscenici “reclusi” le parole dei grandi autori riecheggiano in modo nuovo, sorprendente, sorretti dalla voce e dal corpo di interpreti che sono entrati in contatto quasi fisico con i temi universali: Potere, Giustizia, Passione, Fratellanza, Tradimento, Follia, Perdono, Violenza, Onore, Riscatto, cose che noi borghesi conosciamo nella loro essenza solo dal lato del pensiero e assai poco da quello della vita.

Come avviene la selezione dei detenuti da impegnare nelle attività? Quanti possono partecipare?
La selezione avviene per semplice avvicendamento. Ciascuna delle Compagnie di Rebibbia non può accogliere più di una trentina di attori. Mano a mano che gli anziani escono per fine pena si liberano i posti per coloro che stanno in lista d’attesa.

Come viene organizzato il lavoro laboratoriale?
Si lavora sui testi: o la grande letteratura e drammaturgia di ogni tempo, o testi originali costruiti spesso con gli stessi interpreti. Si parte comunque dalla parola, dal copione, per poi, passo passo, scendere in profondità al sottotesto, alle circostanze immaginarie, alla psicofisiologia dell’atto teatrale, alla corporeità dell’uomo/attore.

Quale tipologia di lavoro viene adoperata per individuare un personaggio e dare vita all’interpretazione?
Esattamente il lavoro che si fa attraverso il metodo Stanislavskij con una qualunque compagnia teatrale: scavo interiore, ricerca delle circostanze immaginarie, immedesimazione. Non esiste nessuna differenza di statuto estetico o metodologico fra un lavoro “classico” e un lavoro ad impronta “sociale”.

Ci sono stati cambiamenti in questi anni nel Suo modo di lavorare?
Ho approfondito il coinvolgimento umano; ho dovuto adeguarmi nel turnover degli interpreti; ho preso le giuste distanze e vicinanze dal contesto penitenziario (agenti, educatori, direzione…). Il grosso lavoro in carcere è soprattutto quello delle relazioni. Non è facile farsi accettare. All’inizio gli Agenti della Polizia Penitenziaria  erano sospettosi e scettici. Ben presto, dopo aver assistito ad alcuni spettacoli e toccato con mano il successo popolare degli attori ed il clima rasserenato nelle celle, hanno cominciato ad apprezzare tutto quanto. Oggi sono fra i primi “fans” delle Compagnie e favoriscono in ogni modo il sereno svolgimento delle attività teatrali. I grandi cambiamenti avvengono fra i miei attori. Il teatro in generale cambia l’attitudine delle persone riguardo a se stesse e al mondo circostante. In carcere, nell’incontro con personalità dure ed incolte, la bellezza, la poesia, la memorizzazione, la ripetizione, l’esibizione sono tutti aspetti del vivere che incidono profondamente in coloro che in precedenza li avevano ignorati. Molti degli attori non conoscevano nulla del teatro, del cinema, della letteratura prima di incontrare la Compagnia. Lentamente si sono appassionati al lavoro di palcoscenico, hanno cominciato ad apprezzarne la faticosa disciplina per il carattere ludico del recitare. Hanno poi sperimentato la soddisfazione del consenso generalizzato, dell’applauso del pubblico, degli agenti di polizia, dei loro stessi compagni di cella. I loro familiari hanno cominciato presto a guardarli con altri occhi: non più semplici uomini di malavita ma uomini di spettacolo. Poi, col tempo, alcuni di loro hanno avuto successo nel mondo dello spettacolo, come liberi professionisti, e questo ha suscitato nei compagni ancora reclusi, nuove attese e nuova fiducia. Per molti di loro è avvenuta la scoperta che la vita può essere davvero arricchita dall’arte e che probabilmente non vale la pena di giocarsela nella partita a scacchi contro lo Stato, dove per lo più è lo Stato a vincere. Oggi, quei cento detenuti-attori che animano il teatro di Rebibbia N.C. si considerano, fra loro, colleghi di palcoscenico. Si sfidano, si emulano sul terreno comune dell’arte.

Che tipo di relazione instaura con i detenuti?
Siamo colleghi impegnati nella medesima sfida estrema dell’arte. Con molti di loro sono nate profonde amicizie.

Gli spettacoli prevedono tournée? Riescono ad uscire dalle mura carcerarie?
La Compagnia del Reparto G8 Lunghe Pene ha il privilegio di uscire alcune volte l’anno. I palcoscenici sono quelli dei grandi teatri della Capitale: Argentina, Eliseo e Quirino.

Su cosa avete lavorato negli ultimi tempi?
La Compagnia del Reparto G12 Alta Sicurezza, che dirigo, ha messo in scena Arturo Ué, ovvero Brecht a Rebibbia, un’opera in rima molto complessa. La Compagnia del Reparto G8 ha lavorato al Viaggio all’Isola di Sakhalin da Cechov e Oliver Sacks (drammaturgia e regia di Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito); la Band musicale, invece, ha portato in scena, pochi mesi fa, Omaggio a De André in collaborazione con la Fondazione Fabrizio De André, con la direzione musicale di Franco Moretti. Stiamo poi portando in carcere il progetto Segnalibro con l’Associazione Italiana Editori per creare un’impresa che produca eBook “accessibili” ai non vedenti da inserire in filiera commerciale. Offrirà formazione e lavoro intellettuale a circa 12 detenuti nel primo anno (a Rebibbia abbiamo 40 iscritti ai corsi universitari interni).

Giulia Esposito

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