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Gea Martire porta in scena per Il Teatro cerca casa il testo di Manlio Santanelli: due cuori di madri per una sola voce.

Gea Martire

Gea Martire

Ma sono davvero tutte belle le mamme del mondo? Qualcuna, forse, più che bella la si potrebbe definire un tipo. Perché troppo ossessiva-compulsiva nei confronti della prole o oltremodo affannata nel recitare il ruolo della madre effige di chi si sacrifica per espiare le colpe dell’umanità intera. Perennemente preoccupata, come per dovere di copione, anche se per l’occasione, l’attenzione è rivolta, in modo particolare, ad un solo spettatore di notevole riguardo: San Gennaro. Per la III^ stagione della rassegna, Il Teatro cerca casa, Gea Martire, sceglie di riproporre  Son tutte belle le mamme del mondo? del drammaturgo Manlio Santanelli, scritto per due attrici, concentrando su di sé i due ruoli delle madri partenopee, molto diverse tra loro, talvolta speculari ma ambedue devote appassionate allo stesso santo. La prima mamma, casalinga dimessa, con un castigato chemisière blu, è intenta a cucire e a tessere un soliloquio confidenziale innanzi ad un luminoso altarino domestico, che onora il mezzo busto del Santo, segno scenico di particolare pregnanza. Vive, con il suo unico figlio, sopravvivendo nell’asetticità coatta di palazzi dormitorio di un quartiere popolare, del quale lamenta una grande solitudine. Qui, la poca solidarietà si è tramutata in grande solitarietà”: una famiglia vicina, arresa alla consapevolezza di poter usufruire di qualche momento di socialità soltanto nei momenti più tragici della vita, vive auspicandosi di essere quanto prima destinataria di condoglianze con altrettanti pacchi di zucchero, caffè e cunzuòli a base di brodo. La solitudine della donna è rafforzata dalla sua professione di “seréngaia spertosa culi” e quindi costretta ad incontrare più deretani che volti, “pacche sincere e non facce di convenienza”. Dunque, per poter salutare le persone e sperare in  qualche amicizia, dovrebbe chiedere loro di abbassarsi i pantaloni. Richiesta del tutto sconveniente per una donna, madre, vedova e devota. Il loro rione è simile ad un Luna Park, dove tra le tante attrazioni, abbondano pesche miracolose, montagne russe (scippi in volata) e tirassegno della fortuna (nel senso che è fortunato chi non è colpito da uno sparo). La donna, raccomanda calorosamente al Santo, di non confondersi tra le troppe preghiere da esaudire che gli pervengono e soprattutto di fare attenzione a certe ambiguità di senso, causate da qualche geminata di troppo: tempo fa, nel chiedere insistentemente di una casa, le fu recapitata una cassa funebre. Il banale errore di raddoppiamento, cambiò il destino di un uomo: suo marito, con una pressione che “saliva e scendeva come la funicolare”, traslocò per sempre, trasferendosi nella Casa Eterna. Osteggia suo figlio che aspira alla pericolosa carriera militare: i suoi palpiti e spasmi di madre, eternamente inquieta, si intensificherebbero ulteriormente. Certo è, che per una missione, seppur pericolosa, ma ben remunerata, un rimedio, per contenere la trepidazione, si impegnerebbe subito a cercarlo. La Martire, nel suo personale stile interpretativo, versatile ed abilissima nel mutare timbro vocale, intonazione e gesti, dà voce anche ai due giovani, cuori di mamma. È un canto popolare in onore dell’amato Faccia ‘Ngiallut, ad introdurre la madre numero 2, che già dall’abbigliamento vistoso e sgargiante rivela la sua diversa formazione dalla numero 1 e le differenti propensioni per i progetti futuri del figlio. Lasciandosi andare a licenze troppo “intime”, svela a San Gennaro di dormire con la sua statua nel letto ma soltanto “per passione dell’anima non della carne”, forse a compensare la mancanza dell’uomo di casa, che da venti anni, alberga in via Nuova Poggioreale. Accennando ad una canzone neomelodica cult di qualche anno fa, esalta lo stesso quartiere desolato, per la movida che permette al figlio importanti frequentazioni di “vero rispetto”, in virtù delle quali si è arruolato nelle pesche miracolose nel campo dei preziosi da asporto assicurandosi una brillante carriera (il minimo per chi s’intende di gemme). Orgogliosa, sottolinea, che il suo “pezzo di cuore”(o di fegato spappolato) ha una grande sensibilità in quanto ruba solo ai ricchi, un Robin Hood nostrano. Un giorno, accadde però, che un giapponese non gradì le sue “sensibili” attenzioni e con un morso gli staccò un orecchio. Così, da uomo “determinato”, cominciò la certosina ricerca del lobulo adatto al suo caso. Riuscito nello scopo si recò al pronto soccorso per farsi rimettere a posto l’orecchio, ma scoprì che aveva sbagliato a rifornirsi (come comprare due scarpe dello stesso piede) ritrovandosi, così, un orecchio rivolto in avanti e l’altro dietro. Ma il giovane essendo uno “di carattere” si rincuorò subito, fiero di poter usufruire di un antenna parabolica con ascolto tridimensionale: “sento contemporaneamente chi mi sta davanti e chi mi sta di dietro”.

La scrittura drammaturgica, corre fluida e briosa su due linee parallele, in equilibrio tra loro, con punti di rimando ed interessanti incursioni sia per forma che per contenuto. Seppur da ogni monologo affiori uno scorcio di Napoli, secondo il punto di vista del personaggio, l’autore non indugia sugli stilemi della napoletanità: Napoli c’è ma non è mai prevaricante. La cifra stilistica della messinscena si precisa nella vivacità dialettica di immagini e costrutti in una stesura che è propria del parlare scenico: un’officina di parole per chi può osare e si diverte, da abile manipolatore dell’alfabeto teatrale, ad accumulare suoni, ripetizioni, ossimori, giochi fonetici-fonologici, coniando idiomi innovativi. Ogni madre, si esprime con il proprio registro linguistico, la sua inflessione marcata che ne identifica l’area metropolitana di appartenenza: Napoli centro? Periferia? Napoli alta? (alludendo ad una bassa e non solo per la sua posizione geografica). Purtroppo, certa “bassezza”, da molti sottintesa, è comune ad ogni longitudine. La Martire, in questi due spartiti per una sola voce, riconferma la sua lodevole prova di attrice, propria di un impulso teatrale esibito ed agito: l’attento salotto, bisogna che tenga il ritmo di un lessico irrequieto ed insegua i tempi di una lingua battente che può, a parere di chi scrive, spingersi ancora, per esaltare, maggiormente, la forza scenica dell’intensa interpretazione. La messinscena si staglia su uno sfondo di costante e sottile ironia che con levità, per brevi tratti, sfocia in un grottesco misurato, che lascia intravedere quella nota di amarezza che fa riflettere e smaschera falsi valori. Gli stessi, che alimentano luoghi comuni ed un bieco “napoletanismo” e che contribuiscono, da sempre, al percorso involutivo della bella città Sirena. Due madri, due figli, un solo luogo, specchio dei tempi. Entrambe, amorevoli per vocazione e, spesso, superficiali per scelta, sono convinte di agire sempre nel migliore dei modi, in quanto investite dal dono divino della maternità o solo in nome del loro grande e buon cuore. E ha poca importanza se consegnano alla protezione di San Gennaro, l’una un giubbino antiproiettile di un carabiniere e l’altra l’arma di un assassino; i loro ragazzi, sono, nel contempo, protagonisti e vittime, con ruoli, apparentemente differenti, di spettacoli mostruosi, diabolicamente diretti, che, purtroppo, nemmeno l’adorato Santo, riesce a risparmiare alla sua terra prediletta.

Antonella Rossetti

Il Teatro cerca casa
www.ilteatrocercacasa.it

Prossime date di “Son tutte belle le mamme del mondo?”:
Lunedì 22, ore 18 – Napoli (zona Vomero)
Venerdì 26, ore 20 – Sant’Anastasia (Na)
Domenica 28, ore 20 – Salerno

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