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Al Piccolo Bellini di Napoli in scena il testo di Manlio Santanelli che, raccontando la condizione esistenziale di una donna, conduce a una riflessione estesa alla società intera.

unnamed (16)“Avevo la necessità di raccontare un’umanità in trasformazione, un mondo che si va deteriorando, una vera involuzione. L’interpretazione en travesti è solo uno dei tanti modi per poterlo fare. Cesira è un personaggio vittima di un mondo che si sgretola innanzi all’occhio cinico della televisione”. Con queste parole il drammaturgo Manlio Santanelli accenna al senso del suo lavoro del 1990, Le tre verità di Cesira, in scena al Teatro Piccolo Bellini dal 25 Novembre al 7 Dicembre, con la brillante interpretazione di Rino di Martino, per la regia di Antonello De Rosa.

Sono le vivaci note dell’allegro motivetto “Vieni pesciolino”, portato alla ribalta da Paolo Poli e Milva, ad accompagnare l’ingresso di Cesira, venditrice di limonate, segni particolari: i baffi. Attraversando la platea, offre bevande fresche frammiste all’allerezza di pesciolini rossi. La costruzione scenica è contrassegnata dalla marcata componente metateatrale che già il titolo sottende, come una didascalia. Il numero tre definisce l’assito: tre fasci di luce illuminano tre siparietti, tre sedie di colori differenti, una per ciascuna verità, il segreto sull’origine dei suoi baffi, che la protagonista vorrà confidare ad occhi e a telecamere curiose. L’attore Rino DI Martino, pienamente in parte, in un monologo che pare calzargli a pennello, si lascia plasmare dalla materia del personaggio. Abile affabulatore, esperto della pratica teatrale, traduce la parola in azione scenica; il personaggio si rifrange nel narrato delle sue proiezioni, oscillando tra presente e passato, tra il “tempo di durata e quello della possibilità”.

In apparenza, sembra di trovarsi dinanzi ad un testo del drammaturgo partenopeo più debole e meno pregnante, rispetto ad altri. Ma interpretato a più livelli, sfogliato nelle sue stratificazioni se ne riconosce la reale portata. Perfettamente in linea con il suo stile di scrittura: aperta, fluida, colma di quella ricchezza espressiva che si esplicita in una dialettica lessicale gorgogliante. I giochi di parole, il ritmo sostenuto, le marcate reiterazioni, il cambio continuo di registri linguistici rilevano la musicalità della tessitura drammaturgica, propria di uno spartito. Interessante la costante ricerca, che attinge alla saggezza popolare di arcaica memoria, dei cunti e dei detti, “ji truvanno a Cristo dint ‘e lupini”. Nel cunto del concepimento platonico, particolarmente coinvolgente e pienamente nelle corde dell’attore, affiora l’universalità ancestrale della favola, del rito e la simbologia esoterica dei numeri (la ripetizione del tre e del sette). L‘autore, qui, rivela una scrittura pensata per dar corpo alle parole, create per l’attore, per la scena. Cesira, da donna semplice, bonaria, con una comicità ingenua, innata diventa un fenomeno da baraccone, di cui, certa televisione superficiale e volgare, con un’invadenza dilagante, si nutre. Il taglio registico di Antonello De Rosa rinvia con maggiore enfasi l’aspetto ironico della messinscena, giocando sulle ambiguità e le traslazioni di senso, maggiormente rafforzate da un attore en travestì, non affondando talvolta in immagini dai tratti rilevanti che diluiscono rapidamente. E tra l’alternarsi della risata autentica e la profondità, la teatralizzazione del diverso, del fenomenale, non sfocia mai nella caricatura forzata. Volutamente palesi i richiami a De Sica e a Ruccello, nel frammentare le amare verità delle grandi tragedie epocali e di quelle “piccole minimali”. La verità dolorosa, come recita Cesira, “feta” come l’acqua sulfurea; per mandarla giù bisogna dividerla in pezzi (minimo in tre), come certi bocconi amari. Cesira è donna semplice ma intelligente, maltrattata da tanti ma forte come la mal’erba. Abusata fisicamente e psicologicamente, beffata dalla natura, dagli uomini, dai Santi e perfino da grossi roditori come le zoccole che le passano davanti. Cesira, è simbolo di chi accetta la sua anomalia come una risorsa e vive tutte le sue contraddizioni con estrema serenità, come accadimenti della vita. L’abito-involucro, che la trasforma da agrume verace a cioccolatino dorato, sottolinea la dimensione del doppio e del ribaltamento che pervade la drammaturgia. Cesira, superficialmente mascolina, a causa della sua eccessiva peluria, è tenera nell’animo; si contrappone al marito che invece assume atteggiamenti di donna proprio negli aspetti più profondi dell’identità femminile, volendo incarnare, in maniera surreale, una pseduo-maternità da cui non può nascere che un finto figlio morto, simile a un piccolissimo cecio. La donna baffuta, esimia acquaiola da generazioni, per soddisfare, per amore sincero, le voglie ricercate del marito gravido si ritrova ad essere un’umiliata ed incoerente acquaiola annacquata. Cesira è quella che si potrebbe definire un’anima bella, anzi straordinaria e, di certo,non per i suoi baffi. È come quel pesciolino rosso, isolato nel suo mondo-palla che, come immobile continua a girare nel suo moto perpetuo, imperterrito e certo solo della sua allerezza.

Purtroppo, un appunto di tipo tecnico-organizzativo va evidenziato: parte degli spettatori delle ultime file, nel giorno in cui chi scrive ha assistito alla messinscena, hanno fruito di una visione alquanto disturbata dello spettacolo, in quanto un cameraman, del quale ignoriamo la rete di appartenenza, nell’esercizio del suo incarico, parlava in continuazione, arrecando fastidio a chi gli era accanto. Nel rispetto del lavoro e del diletto altrui sarebbe preferibile che tale condizione non concedesse il bis.

Antonella Rossetti

Piccolo Bellini
Via Conte di Ruvo, 14 – Napoli
Contatti: 081.5491266 – http://www.teatrobellini.it/

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