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Damiano Michieletto propone la rilettura di un classico, attraverso un allestimento attuale e irriverente, per una denuncia contro la miseria umana, la corruzione e il malaffare che travalica ogni tempo e luogo.

Foto di Simona Pea

Foto di Serena Pea

Avere tutti gli ingredienti per essere felice ma non rendersene conto: questo alla base de L’Ispettore Generale di Nikolaj Vasil’evic Gogol’ su adattamento drammaturgico di Damiano Michieletto, andato in scena prima al Teatro Morlacchi di Perugia (26-30 novembre) e poi al Teatro Bellini di Napoli (3-7 dicembre).

La storia, scritta nel 1836 ma adattabile anche ai nostri giorni, viene riportata in scena dal giovane regista veneziano in modo più leggero (rispetto allo schema teatrale del 1800), divertente, colorato (l’impatto cromatico delle pareti è notevole) e collocata in tempi moderni, ma non troppo. La scenografia, infatti, grazie a elementi quale il telefono fisso, la pistola nascosta sotto il bancone, lo stile dell’arredamento e, ancora, l’abbigliamento vistoso accompagnato da accessori eccessivi (catene d’oro massiccio e cappotti stile Rocky Balboa) e le mise intime un po’ retrò delle attrici, sembra volerci catapultare nelle atmosfere tipiche degli anni Settanta.

Foto di Simona Pea

Foto di Serena Pea

In un paesino dimenticato da tutti, non necessariamente russo, ma sicuramente dell’Est Europa, si muovono una serie di personaggi le cui fila sono mosse dal Sindaco (Alessandro Albertin), leader indiscusso che tiene in mano anche l’economia locale, gestita dal suo bar a conduzione familiare. Nella routine quotidiana, in cui regna sovrana la corruzione, rendendo il Primo Cittadino e i suoi “compari” degni di una piccola cupola mafiosa, giunge la notizia dell’imminente arrivo al villaggio dell’Ispettore Generale, una sorta di revisore inviato dall’alto governo. Il panico si scatena tra tutti: l’arrivo di un controllore, che potrebbe essere tutt’altro che “controllabile se non corruttibile” potrebbe far scoprire e denunciare le continue malefatte. Tanto è concitata la reazione che, per colpa di Dobcinskij (Luca Altavilla) e Bobcinskij (Emanuele Fortunati) ‒ coppia comica alla Gianni e Pinotto ‒ un giovane di buona famiglia ma squattrinato e profittatore (Stefano Scandaletti) verrà scambiato proprio per l’Ispettore. Un errore che porterà non solo ad una serie di simpatici malintesi ma costringerà tutti i personaggi a mettersi a nudo e a rivelarsi per ciò che sono: un gruppo di persone “sporche”, insoddisfatte della propria vita e pronte a tutto pur di riuscire ad ottenere ciò che vogliono. Fra tutti, oltre al Sindaco ‒ protagonista indiscusso della scena, con il suo gesticolare a grandi mani e una voce dal timbro forte e sicuro di sé (che ben contrasta con lo spirito più timido con cui si descrive pubblicamente), il quale, vedendo tentennare il suo “piccolo grande potere” offrirà di tutto e di più al teorico ispettore, e lo asseconderà, accecato dal proprio egocentrismo, anche davanti all’evidenza del raggiro del giovane ‒, spicca la moglie Andreevna (Silvia Paoli), controfigura della donna che tanto avrebbe voluto essere (e che non è) che non si fermerà davanti a nulla pur di poter vivere nella sognata capitale, centro di vita sociale, arrivando letteralmente a gettar la figlia tra le braccia dell’Ispettore: non potendo raggiungere la grande città si accontenterebbe, miserevolmente, di entrarvi quale ombra della figlia, e ancora Mar’ja (Eleonora Panizzo), la figlia bistrattata da tutti e alla ricerca di un affetto che pare non arrivare mai da nessuno, ma che sembra essere l’unica a rimanere con i piedi per terra e ad avere un minimo di spessore culturale (forse per sfuggire alla tristezza di non essere minimamente considerata si rifugia nella lettura di un libro, ascolta musica e rimane pratica in ogni situazione).

Foto di Simona Pea

Foto di Serena Pea

Dall’inizio alla fine, altro grande comprimario sarà l’alcol: tutti eccedono nel bere e lo fanno in modo tanto naturale da farlo divenire un gesto ordinario come prendere una boccata d’aria. Alcol per dimenticare, per ridere, per circuire, per ingannare e per festeggiare. In tutto questo clima che “profuma” di vodka un turbinio di emozioni attraversa il palco fino ad esplodere nella scena finale in un vero e proprio tripudio di colori, musica e “pazzia generale” che lascerà a bocca aperta lo spettatore. Non solo il pubblico, però, rimarrà esterrefatto: infatti, quando alla fine la verità, come in ogni buona commedia accade, si farà strada, fra tutti ci sarà da fermarsi a riflettere sul cinismo che a volte può velarci occhi, impedendoci così di vedere quanto possediamo.

In una società consumistica come quella attuale (e come quella di Gogol’ allora) a volte poco attenta a ciò che la circonda, si è talmente impegnati a sentirsi infelici da dare in automatico tutto per scontato così non apprezzando più il valore delle piccole cose, quelle piccole cose che, in realtà possono davvero rendere grande la vita.
A dimostrazione di ciò, Michieletto esaspera movimenti ed espressioni dei personaggi rendendoli grottescamente superficiali e poco attenti ad una realtà che, seppur chiusa in una piccola realtà di provincia, potrebbe essere ben più che soddisfacente. Se i protagonisti si fermassero ad analizzare la propria situazione, si accorgerebbero che hanno praticamente tutto ciò che desiderano: ricchezza (il giro di soldi è enorme e c’è un continuo scambio di banconote, anche da parte dei meno abbienti), posizione sociale (i protagonisti ricoprono ruoli importanti), famiglia (anche se non unita essa sopravvive nonostante la figlia sia motivo di scherno da parte del padre, che la emargina in quanto “femmina” e non erede maschio probabilmente desiderato, e della madre che in alcuni momenti sembra vedere in lei un’ordinarietà che non la rispecchia e in altri, paradossalmente, una rivale in quanto culturalmente avvantaggiata) e amicizia (tra una naturale complicità e il sostenersi a vicenda il gruppo risulta unito come una combriccola di vecchi compagni di scuola). Quella che emerge, invece, è una società che non si accontenta, sempre alla ricerca “dell’avere di più”, che non bada, dunque, a ciò che possiede materialmente e moralmente (se, in questo caso, avessero una propria morale) e che potrebbe già essere motivo di felicità, attuale e collocabile in qualunque periodo storico, rappresentata dal regista in maniera caricaturale. Una scelta che sicuramente riesce bene a coinvolgere e a far divertire lo spettatore ma realizzata in un lasso di tempo ‒ lo spettacolo dura quasi tre ore ‒ forse eccessivamente lungo senza che di ciò benefici la messinscena nel suo complesso.

Francesca Cecchini

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