Il “Natale in casa Cupiello” di Antonio Latella
Il celebre testo di Eduardo De Filippo diventa pretesto per indagare sulla famiglia e le sue relazioni interne, in un susseguirsi di valori e visioni diverse, legate insieme dall’immobilità che asciuga sentimenti e slanci di vita e spegne ogni luce, perfino quella della cometa.
Con uno spazio spogliato da prevedibili convenzioni e moralismi borghesi, da ravvisabili richiami scenografici agli ambienti domestici, da fedeltà realistiche e rappresentative, da tradizionali inerzie emulative; con identità che sono semiotico dinamismo mentale e carnale di psicologie, ruoli, e voci; con una religiosità invertita nell’assenza del presepe e della tavola imbandita – rese invisibili plasticità liturgiche, e del focolare che è vuoto abbraccio di una “sacra famiglia morente”, Antonio Latella porta al Teatro Argentina – fino al 1° gennaio – un Natale in casa Cupiello (drammaturgia di Linda Dalisi e produzione del Teatro di Roma) che è un approccio intimo e diretto, un confronto a cuore aperto con l’eredità linguistica, testuale e autoriale di Eduardo (il cui inconfondibile timbro vocale risuona ripetuto d’invisibile presenza), privo di qualsiasi intento provocatorio o scandalistico.
Lo fa schierando tra il vuoto frontale della ribalta e una gigantesca stella cometa scesa dal cielo (le scene sono di Simone Mannino e Simona D’Amico), un nero plotone lineare di dodici personaggi (qualcuno più eccentrico, non necessariamente femminile, veste pellicce, minigonna di pelle, tacchi alti, curati, come tutti i costumi, da Fabio Sonnino) che si manifestano liberandosi gli occhi da una mascherina. Qui, su questa soglia sguarnita, Luca (Francesco Manetti, concentrato di asciutta e inquieta veemenza fisica a caratteriale), bastone da passeggio e giacca bianca, è compulsiva urgenza a imprimere nell’aria le parole, tutte le parole, sue e degli altri – didascalie comprese -: quelle di un napoletano scritto e parlato, di accenti pronunciati e sentiti sulla pelle, come inattesi scappellotti emotivi. È centro gravitazionale di singole coscienze e cori narranti (fatti di frasi scandite, sillabate, echeggiate), sostenuti e alternati da intrecci vocali linfe di precisi attriti ironici vibranti di comuni drammi antropici, di scontri generazionali, di libertà ambite e formalità arenate in riti consolidati, subiti.
Tutte apparenze nutrici di dissapori e risentimenti che consumano anima e corpo, e riducono l’uomo a essere spalle e braccia portatrici di violenti istinti animaleschi – nelle forme ingombranti e macabre di animali-fantocci, e nello scontro, per la conquista della femmina, tra i muscoli di Nicola (Francesco Villano) e Vittorio Elia (Giuseppe Lanino) –. Sono schegge d’incoscienza che pervadono una sala da pranzo che è spazio funebre disegnato da un vorticoso “sceneggiato” dinamismo visivo e sonoro di un’”ultima cena” (di discreto fascino buñueliano), fatta di rincorse, voci e rumori, e penetrato da un carro nero con pareti trasparenti, che è polmone riempito ed evacuato (e sovrastato) ora da esistenze contorte in spasmi di tensione, ora da inanimate vittime sacrificali. Gravosa massa simbolica della casa, trascinata da Concetta (contenuta nell’essenzialità di scheletro e tendini di Monica Piseddu), materna moglie e massaia d’irrinunciabile tenacia protettiva e faccendiera, devota amante e alleata del proprio uomo al cui capezzale recupera, come tutte le altre presenze, un equilibrio sacrale che sospende il tempo e dilata i respiri, trasforma i dialoghi intorno alla malattia di Luca in solenni canti, e i corpi in funerei contorni di scure crinoline.
Ecco le statue dell’unico, vero e vivente presepe, dove la (majewskiana) staticità pittorica si fonde con l’elevazione a poetica assurdità di un corpo, quello di Luca, posato in una mangiatoia, come un Cristo mantegnesco di pelle e ossa, e ritorto nello sforzo doloroso di un regressivo delirio infantile. E qui, tra gli sguardi inermi dei partecipanti, la mano del padre deposto stringe quella di Tommasino (Lino Musella), il figlio ora pronto ad accogliere il testimone e accettarne in eredità un presepe che, per la prima volta, ’e piace.
Nicole Jallin
Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina, 52 – Roma
Tel. 06 684 00 03 11/14 – http://www.teatrodiroma.net/
Orari:
martedì e venerdì ore 21.00
mercoledì e sabato ore 19.00
giovedì e domenica ore 17.00
giovedì 25 dicembre ore 19.00
venerdì 26 dicembre ore 21.00
mercoledì 31 dicembre ore 17.00
giovedì 1 gennaio ore 17.00
lunedì riposo
22, 23, 24 dicembre riposo
Durata: 160’ più intervallo