Piccolo e squallido carillon metropolitano
Da corto teatrale a spettacolo completo, così il regista e autore Davide Sacco descrive la famiglia nella realtà di provincia.
Il 9 e il 10 dicembre al Nuovo Teatro Sancarluccio la compagnia Avamposto Teatro ha presentato Piccolo e squallido carillon metropolitano scritto e diretto da Davide Sacco, con Orazio Cerino, Giovanni Merano ed Eva Sabelli. Lo spettacolo nasce come corto teatrale ed ha debuttato nella passata edizione della rassegna La Corte della Formica, ideata e organizzata da Gianmarco Cesario. Successivamente è entrato a far parte di Anche le formiche nel loro piccolo… crescono, manifestazione sempre a cura di Cesario dedicata alle messinscene sorte, appunto, in una versione ridotta e in seguito ampliate.
Affresco di un nucleo familiare abitato da solitudine e disagio, Piccolo e squallido carillon metropolitano presenta una scenografia molto particolare elaborata da Luigi Sacco. Il pubblico, infatti, viene subito proiettato in quello che sembra un giardino incantato dell’erba verde smagliante, con tulipani bianchi tutti intorno al palco e delle cornici sempre bianche a grandezza naturale poste in fondo alla scena. Completano l’arredamento una sola sedia – anch’essa bianca – e due mobili dello stesso colore appesi al soffitto, quasi a dare un senso di sospensione inspiegabile a primo acchito. In realtà, questo piccolo giardino ben tenuto e dai colori brillanti va a scontrarsi completamente con il dramma che sta per essere rappresentato e con la descrizione della casa in cui si svolge l’azione. Pian piano emerge la storia di tre fratelli molto diversi tra loro dal punto di vista caratteriale, ma accomunati da un dolore e da una mancanza che in qualche modo frena costantemente le loro esistenze privandoli della possibilità di qualsiasi cambiamento. Da qui quel senso di sospensione, a cui si faceva riferimento prima, relativo ai personaggi che non riescono ad essere quello che vorrebbero e a vivere in maniera “leggera”, lasciando piuttosto che ci sia sempre una voglia di fuga ad aleggiare nell’aria sebbene continuamente soppressa da qualche fantasma che mai abbandona l’abitazione natale. Eppure Mimmo, Ettore e Mimì (questi i nomi dei fratelli) sono semplicemente l’emblema di una famiglia tra tante, la cui storia costringe ad interrogarsi sui legami familiari, sul senso di protezione che essi dovrebbero trasmettere e su quanto in realtà possano condizionare in maniera negativa e opprimente.
Non a caso, si muovono in modo rigido e a scatti come se facessero parte del meccanismo di un carillon: un oggetto che ricorre sin nel titolo del lavoro di Sacco e a cui i protagonisti fanno costantemente riferimento quando ricordano la spensieratezza dell’infanzia e soprattutto la loro madre morta. Una figura fisicamente assente in scena ma spesso richiamata alla memoria con parole dolci attraverso cui traspare l’affetto che riusciva a donare ai figli e con cui copriva la miseria della propria casa. Poche battute, invece, sono dedicate al padre (anch’egli defunto) che viene visto ancora come figura autoritaria da temere e da rispettare.
Tra i tre attori in scena, su tutti prevale Orazio Cerino che veste i panni del primogenito Mimmo, una donna mancata che non riesce a vivere liberamente la sua omosessualità e il suo grande amore per Andrea. Egli, in qualche modo, rappresenta il bisogno di normalità, di essere accettato per quello che si sente di essere, di vivere una vita serena senza condizionamenti esterni e interni che bloccano la sua voglia di amare, e al contempo quel forte senso di responsabilità che da solo lo ha fatto ritrovare ad occuparsi della cura della casa, della mamma malata e della sorella più piccola afflitta da un ritardo mentale. Forte e struggente (soprattutto rispetto agli altri due personaggi), dunque, la sua interpretazione, che molto bene riesce a rendere con naturalezza gli atteggiamenti femminili propri del ruolo, risultando particolarmente convincente nel momento più inteso della pièce in cui l’attore regala al pubblico un ritratto di periferia che non lascia indifferenti.
Caratterizzato da una perfetta e spiccata cadenza napoletana è il secondogenito Ettore, interpretato da Giovanni Merano. Ragazzo come tanti, dalla fragile personalità che lo induce a vergognarsi di avere un fratello omosessuale a causa del quale si sente giudicato e “sfottuto” dai ragazzini del suo quartiere, Ettore è bloccato dal punto di vista sentimentale e ha difficoltà ad avvicinarsi, sia fisicamente che umanamente, al fratello maggiore, che un tempo considerava un eroe. Per questo motivo scappa a Milano, ma tornerà a casa sei mesi dopo la morte della madre, adducendo come scusa quella degli impegni lavorativi. Il suo personaggio incarna l’inutilità della fuga dalle proprie radici, da cui non è possibile distaccarsi mai del tutto, soprattutto se la scelta non è sorretta da motivazioni serene, e mette in luce il suo non saper essere risolutivo, deciso nelle scelte e nelle conseguenti azioni, proprio come accade con un pezzo di carillon, che, affinché continui a funzionare, non può cambiare posizione né essere rimosso.
Infine, ritroviamo Eva Sabelli nel ruolo di Mimì, una bambina di trent’anni che si veste ancora come una principessa delle favole. Paradossalmente, è lei il perno del meccanismo del carillon: in grado di avvertire, grazie alla propria sensibilità, le difficoltà di Mimmo e Ettore che proverà ad aiutare facendoli riavvicinare, è la Verità che disvela per prima lo squallore e le inutili catene di cui i suoi fratelli sono schiavi, e la Sabelli, superato un primo momento di incertezza, ne sa restituire un ritratto delicato e toccante.
Ultimo personaggio in scena è Fefè, il defunto pesce rosso da cui Mimì non riesce a staccarsi, che rappresenta l’indifferenza della società odierna, ovvero l’attitudine a vivere isolati gli uni dagli altri, guardando la realtà da una boccia di vetro senza più la forza di rapportarsi direttamente con chi si vive accanto.
Funzionali alla messinscena la colonna sonora – caratterizzata unicamente dal suono classico di un carillon che, in particolare, fa da sfondo ai dialoghi, interrompendosi, invece, durante i monologhi come se ciascun personaggio, solo in scena, fosse soltanto allora libero di uscire dal meccanismo in cui è costretto e parlare liberamente di sé –, i costumi di Silvia Tagliaferri – in grado di riprodurre efficacemente le personalità dei personaggi attraverso il loro modo di vestirsi –, il disegno luci di Francesco Barbera che, optando per atmosfere dai toni freddi (come d’altronde è il rapporto tra i due fratelli più grandi), ricrea un effetto chiaroscuro d’impatto durante i tre monologhi (uno per ogni personaggio), così ben rispondendo alla volontà dall’autore- regista di mettere in risalto più la parola pronunciata che non l’espressione facciale assunta nel dirla.
Gabriella Galbiati
Nuovo Teatro Sancarluccio
Via San Pasquale a Chiaia, 49
info e prenotazioni: 081 410 44 67 – 339 429 02 22 – www.nuovoteatrosancarluccio.it