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Il figliol prodigo torna a casa e mette in scena a Perugia una favola amara e rabbiosa. Filippo, rinchiuso in un corpo che non sente suo, si incrocia in una dimensione parallela con la mera illusione di un’esistenza normale vissuta tra ironia-pop, passi di danza e acrobazie sui pattini d’argento.

Foto di Sebastiano Mauri

Foto di Sebastiano Mauri

«Lo spettacolo è un addio, il mio addio al teatro», questa la frase provocatoria con cui Filippo Timi apre l’incontro pubblico svoltosi in occasione della messa in scena al Teatro Morlacchi di Perugia di Skianto (dal 10 al 14 dicembre per la Stagione di Prosa a cura del Teatro Stabile dell’Umbria). Stanco di parlar di sé, di portare sul palco un autobiografismo reale che va a mescolarsi con la fantasia, l’attore motiva così il suo nuovo lavoro di cui è anche interprete e regista: «Un cerchio che si chiude; che parte dal Don Giovanni in cui c’era una rincorsa alla sfrenatezza che, allora, mi apparteneva, per arrivare a questo spettacolo che nasce da un’esigenza di dolcezza piuttosto infinita, pieno di concretezza». Con questo “skianto di dolcezza”, così come l’autore ama definire quest’ultimo capitolo di una parte della sua vita, dunque, si conclude un percorso importante di cui fa parte anche Tuttalpiù muoio (2006, Fandango Libri) che l’attore non dimentica di citare e che descrive in pieno il “Filo” che si riscatta da una vita vertiginosa fatta di sconfitte e lotte quotidiane, attraverso l’umorismo e l’energia propria del Timi che siamo abituati a vedere sul palcoscenico.

Nella messinscena tutto ruota intorno alla “handicappitudine” di Filippo,  bambino-uomo fisicamente intrappolato in un corpo che non gli permette di esprimersi, quasi di muoversi e praticamente di vivere se non accudito dalla sua famiglia. Nucleo familiare che però non riesce a capire molto di lui perché, pur assistendolo in ogni attimo della giornata sin dalla nascita, è impossibilitato a tradurre i suoni gutturali che emette e che purtroppo sono l’unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno, ad eccezione del nonno che riconosce in quel nipote una somiglianza molto stretta a se stesso e a cui il ragazzo è molto affezionato considerandolo un vero e proprio eroe.

Foto di Sebastiano-Mauri

Foto di Sebastiano-Mauri

Diverse e molteplici le sensazioni che si alternano durante la pièce, tutta in dialetto perugino («Un testo in perugino un po’ lavato – asserisce Timi – con l’acqua fredda e il bicarbonato. Nel senso che è comprensibile. È uno spettacolo pieno di parole che son bone ma un pochino dolorose»), e pregnante la presenza di dolore che si avverte molto e in più momenti, fino a sentirsi di riflesso tanto attanagliati da tale sentimento da ritrovarsi insieme al protagonista imprigionati in questa dimensione parallela che chiude un muro intorno alla mente e impedisce di parlare, ridere, giocare, sorridere, piangere, tutto, tranne di vivere quella quotidianità che per noi, esseri “normali”, è quasi una routine che, forse, non riusciamo ad apprezzare mancando proprio una barriera paralizzante che ci fermi il passo ad ogni respiro.
Con cruda immedesimazione, Timi entra nell’anima del ragazzo con la “scatola cranica sigillata” e conduce gli spettatori alla scoperta della sua vita interiore, così come lui se la immagina. Il “suo” Filippo alterna momenti “leggeri” che portano ad affrontare un argomento tanto importante e delicato come quello della disabilità con ironia e levità, ad altri in cui l’intensità delle parole e della disperazione del protagonista ammutoliscono il pubblico, e tra le scene che ben rendono questo oscillante stato d’animo, particolarmente efficace si dimostra quella incentrata sul racconto del compleanno: ogni anno i genitori comperano la stessa torta, un dolce che a lui non piace e che non mangia mai. Un “atto d’amore”, il dolce, che diventa metafora, però, della condizione di “tortura” in cui il ragazzo si trova costretto senza speranza di uscita: inutile per Filippo continuar a storcere la bocca, quel sapore di panna acida sarà costretto a mandarlo giù (ed odiarlo) lo stesso, sempre, ad ogni ricorrenza, così confermandogli che se impossibile diventa capire i gusti culinari che gli appartengono, a maggior ragione utopico sarà ottenere comprensione per aspetti molto più profondi.

Foto di Sebastiano-Mauri

Foto di Sebastiano-Mauri

In perpetuo bilico tra risa e lacrime, il gioco che il regista dall’estrosa personalità attua sul palco (accompagnato da Andrea Di Donna alla voce e chitarra) ben presto, tuttavia, risulta un’arma a doppio taglio: seppur acclamato dalla maggior parte del pubblico e amato dagli spettatori proprio per la vena di fantastico “trasgressore” che lo contraddistingue e per il suo essere indipendente da modelli forzati e preconfezionati, infatti, il monologo di Timi rischia di non accontentare chi, “diversamente sensibile”, potrebbe vedere nel linguaggio colorito e nella figura di Filippo la caricatura eccessivamente stravagante di un ragazzo disabile, con l’effetto di lasciare interdetti e di conseguenza “distanti” chi ascolta e osserva. È anche vero, però che asserendo egli stesso che questo è “già uno spettacolo meravigliosamente buono”, lascia intuire la natura provocatoria delle sue scelte di regia che inevitabilmente lo rappresentano in tutto e per tutto: «Parlo di me, assolutamente di me – dichiara. È uno spettacolo egocentrico: sono io quel ragazzino handicappato. Io ho chiuse in bocca tante parole che non usciranno mai». Se da un lato, dunque, è certo e giustificabile tutto questo, dall’altro riteniamo comunque diventi impossibile non dubitare che l’irruenza dell’attore possa distogliere l’attenzione dalla reale protagonista della storia, ovvero la voce dell’anima inquieta, infelice e insoddisfatta di quel Filippo che si contorce in uno status di immobilità e frustrazione, tra sogni impossibili e desideri repressi, con il rischio di ottenere, così, un effetto alterato rispetto a quello cercato nelle intenzioni drammaturgiche.

Degna di nota la scelta della musica che spazia dagli anni Ottanta – così come ci ricorda lo stesso titolo Skianto «scritto con la K perché fa tanto anni Ottanta» appunto ‒ riportandoci indietro nel tempo alla snodabile Heater Parisi (il ballo è la passione di Filippo) e all’indimenticabile Renato Rascel (“noi siamo piccoli ma cresceremo” non si addice a Filippo ma probabilmente è un’allegra spinta in più verso la speranza), passando per l’eccellente musica dal vivo di Di Donna, giovane cantautore romano, che incanta il pubblico con le sue canzoni Kind to you e Half of you, per poi arrivare ad un’interessante versione di Baby one more time di Britney Spears e concludere con Black or white di Michael Jackson.

Francesca Cecchini

Teatro Morlacchi – Teatro Stabile dell’Umbria
piazza Morlacchi 13, Perugia
Contatti: www.teatrostabile.umbria.it – 075 575421

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