Go down, Moses
Romeo Castellucci debutta in prima nazionale al Teatro Argentina percorrendo la storia del profeta ebraico in una cerebrale e febbricitante visionarietà.
È un onirismo raffinato quello che Romeo Castellucci scioglie (con la regia e la cura di scene, luci e costumi, e musica di Scott Gibbons) sulla scena del teatro romano, dove replicherà fino al 18 gennaio, prima di proseguire la tournée europea. Una poetica teatrale di pura e incoerente squisitezza, quella della Socìetas Raffello Sanzio, che si mostra nel conflittuale amplesso tra estetica visiva e narrazione, all’interno di una semantica torrenziale ed enigmatica di simboli e segni trasmigratori da catturare, trascinare dentro la fibra neuronale, insieme alla loro indecifrabilità. Il testo, firmato insieme alla sorella Claudia, è veicolo di criptici stimoli emotivi che snodano le fila del mito decostruito e adagiato su un passato afro-americano, richiamato, già nel titolo, dal brano gospel e dall’omonimo romanzo di Faulkner, e su una più tragica e riconoscibile contemporaneità, quella del dolore fisico, morale e spirituale di una giovane madre che abbandona il proprio figlio in un sacchetto dopo il parto – non preceduto, però, da sviluppo fetale -, improvvisato in una toelette imbrattata del suo sangue; lo stesso nel quale si accascia, tra spasmi d’imbarazzo e dolore, di angoscia e solitudine.
Atto crudele e incomprensibile agli occhi della civiltà e alla coscienza di un ispettore di polizia (Sergio Scarlatella) che, impegnato nella ricerca del neonato, arresta e interroga la genitrice, prima di affidarla ad accertamenti sanitari (che richiederanno, in scena, il macchinario della TAC).
È una messinscena generatrice di significanti che si dissolvono gli uni negli altri in un allucinatorio e paralitico iperrealismo. Qui, dopo l’iniziale, silenzioso e indifferente girovagare di sette rappresentanti di una borghesia sbiadita, in un’atmosfera tersa e asettica, tagliata da un morbido gioco posologico di luci e ombre, il palcoscenico, diviso verticalmente da un tessuto semitrasparente (sostegno per le proiezioni video e, insieme, tangibile limite immateriale), diventa culla pulsante di una narrazione scandita in capitoli, e sospesa da intermezzi visivo-sonori di mera irrequietudine sensoriale, che matura nell’ansiosa attesa del contatto tra una massa di capelli (di un corpo assente) lentamente calata dall’alto, e il moto rotatorio di un grande albero cilindrico in proscenio.
In tale dimensione, Castellucci plasma un Mosè di severa tensione psicologica, di connessione nervosa astratta, attraverso un percorso a ritroso che parte da quel figlio privo di eredità paterna, quel semplice essere “generato da”, quella pura assenza e totale mancanza, per fare un continuo movimento indietro, passando attraverso l’essere umano per arrivare all’umanità stessa, remota, sconosciuta. Egli è la “traccia” di se stesso, e lo è fin dalla nascita, istante culminante di una emorragica e stremante venuta al mondo. Egli è l’immagine di se stesso, evocata in un coniglio (simbolo di fertilità, di rinascita perpetua, ma anche di lussuria, di spreco e di viltà) e invocata dalla stessa mamma che si sdraia (delicatamente e incestuosamente) su essa. Egli è eco della sua stessa vita, quella scritta nel Libro dell’Esodo, che qui si riflette nell’interiorità di una donna d’oggi che il regista romagnolo riempie di una concretezza fatta di voce e parola profetica, di carne e anima martoriate da una maternità ripudiata, volontariamente e colpevolmente perduta, e, per questo, necessariamente (auto)condannata all’esilio in un deserto mentale e spirituale, a un eterno esodo verso un mondo primitivo popolato da kubrickiani ominidi. A loro il compito di comunicare l’immagine di un’umanità arcaica sofferente e speranzosa, istintiva e sadica, animalescamente affettuosa e razionalmente spietata. Un’umanità che si è perduta nell’eternità degli spazi e dei tempi, e che lancia a noi, sguardi perforanti della quarta parete, un segnale di aiuto per ritrovare se stessa, e salvarsi.
Nicole Jallin
Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina, 52 – Roma
Tel. 06 684 00 03 11 / 14 – http://www.teatrodiroma.net/
orari spettacolo: martedì e venerdì ore 21.00 – mercoledì e sabato ore 19.00 – giovedì e domenica ore 17.00
lunedì riposo