Vucciria Teatro, il focus
In occasione dell’arrivo a Galleria Toledo della neonata compagnia siciliana per un doppio appuntamento che ha visto andare in scena entrambi gli spettacoli fino ad oggi realizzati, abbiamo incontrato i fondatori per intervistarli e questo è il ritratto che abbiamo fatto del loro lavoro.
Io, mai niente con nessuno avevo fatto
Non sono nuovi i temi scandagliati in Io, mai niente con nessuno avevo fatto, primo lavoro di Vucciria Teatro, compagnia teatrale nata in Sicilia nel 2013 per volontà dei due fondatori, Joele Anastasi e Enrico Sortino, andato in scena a Galleria Toledo sabato 9 gennaio nell’ambito del focus dedicato alla giovane realtà.
Omosessualità, violenza, malattia – i cardini intorno ai quali la drammaturgia di Anastasi si sviluppa e cresce – sono condizioni su cui spesso si indaga, scrive, in teatro così come altrove. Eppure forte è il legame, l’empatia che immediatamente si instaura tra i tre protagonisti della storia, Giovanni, Rosaria e Giuseppe, e chi ascolta, osserva e vive, di riflesso, le loro esistenze, di cui non si fatica a comprendere la sofferenza, la solitudine e in essa immedesimarsi, sentendone il dolore.
Senza alcuna scenografia di supporto (solo un baule posizionato sul fondo), ma un sapiente gioco di luci che alternandosi nell’accensione scandiscono le partiture suddivise tra ciascuno dei tre attori, lo spettacolo è costruito su un flusso narrativo che accavalla i ricordi, le narrazioni, il tempo così tessendo una trama che mai si interrompe ma lega le tre figure indossolubilmente tra loro, sebbene sulla scena esse non si tocchino mai, né mai si guardano negli occhi pur ogni loro dialogo avendo come interlocutore l’altro.
Cugini tra loro, Giovanni (Joele Anastasi) e Rosaria (Federica Carruba Toscano) sono figli di un “universo popolare”, come si legge nelle note di regia, in cui tutto è da conquistare con fatica, basandosi unicamente sulle proprie forze, scontrandosi spesso con chiusure, meschinità e pregiudizi dettati dall’ignoranza ma anche dalla paura di ciò che è diverso, non uguale a tutto il resto del branco. Quel branco in cui da sempre si è vissuti costringendo a crescere come animali, in cui le emozioni contano poco, ed è l’istinto che prevale, condiziona, decide.
Cresciuti insieme sognando la stessa libertà, dalla famiglia, così come dalla Sicilia che gli ha dato le origini, rappresentano l’uno il punto di riferimento dell’altro, in particolare per Giovanni che solo da Rosaria sa di poter essere compreso per la sua vera natura, di anima ingenua, sprovveduta, che ama Giuseppe (Enrico Sortino).
Ma sarà proprio quest’ultimo, insegnate di danza, dal passato oltremodo sofferente, in cui violenza e squallore hanno trovato dimora proprio all’interno nella sua famiglia, sui volti e nei corpi dei propri congiunti e di se stesso, che irrompendo nelle loro vite le disgregherà. Le condizionerà per sempre, le infetterà con il suo stesso malessere esistenziale, trascinando in particolar modo Giovanni – che lei, Rosaria, veste con il suo affetto e la sua protezione, mentre lui, Giuseppe, lo spoglia della sua innocenza e ingenuità ‒ in una spirale che finirà per stritolarlo, negandogli ogni illusione di salvezza.
Dal linguaggio ruvido, esplicito cucito su ogni personaggio in modo da farne emergere la natura più nascosta – così intercettando anche le corde più profonde che possano trovare riscontro in una lettura dalla dimensione universale, che oltrepassi il microcosmo siciliano descritto – , la regia sceglie, vincendo, di lasciare alla sola azione attoriale (tra cui eccelle quella della Carruba Toscano) la responsabilità di vivificare il testo e allora ecco i corpi diventare loquaci con la stessa veemenza delle parole e raccontare, nel silenzio urlato della loro fisicità, tutta l’angoscia di cui i loro cuori sono pregni, il desiderio/pretesa di essere accettati, di vedere compresa e affermata la propria identità. Per farsi passione, quella più brutalmente corporea, ma anche più intima, legata ad un sentimento, un moto dell’anima che il richiamo alla danza e l’uso della musica del tango, ad aprire e chiudere lo spettacolo, bene fanno emergere, rendendola visibile anche all’esterno. A noi, i cui baratri, anche se hanno origini e risvolti diversi, sono forse identici per intensità e buio.
Battuage
È il rumore di una goccia che ripetutamente cade mentre sul palco è da subito visibile l’ambientazione che ospiterà lo spettacolo – l’interno di putridi bagni pubblici in un luogo di periferia non meglio identificato – ad accogliere gli spettatori in occasione del debutto a Napoli a Galleria Toledo, il 10 gennaio, di Battuage, seconda produzione targata Vucciria Teatro, per la regia di Joele Anastasi.
Sin dal titolo, dichiarato è il tema su cui questa volta la compagnia siciliana si confronta e comuni con il precedente lavoro appaiono alcuni aspetti che ne caratterizzano lo stile di scrittura: anche in questo caso, infatti, evidente risulta – man mano che la storia si palesa – l’interessante forma circolare che Anastasi sceglie per la sua drammaturgia, con il ritorno, di volta in volta, attraverso momenti temporali diversi, di quadri già antecedentemente vissuti rispetto alla scena in corso, e che molto sembra attingere alle modalità tipiche del cinema.
Composto da storie diverse che confluiscono tutte in questo anonimo luogo comune, simbolo esteriore della bruttura che contraddistingue anche le esistenze di ciascuno dei personaggi che si avvicendano sul palco impersonati dai quattro attori in scena (Joele Anastasi, Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano, Simone Leonardi) che ogni volta assumono sembianza diverse, lo spettacolo è intorno alla figura di Salvatore che ruota. Artefice delle proprie scelte e deus ex machina di quelle altrui, per sfuggire la precarietà del suo stesso essere e dimostrare di poter occupare – in un astratto dover rendere conto agli altri di chi si è – un posto nel mondo, sceglie di vendere il proprio corpo e illudersi di trovare così una risposta alla rabbia che lo anima. Ma fragile è il suo io, e il suo continuo rivolgersi alla madre (metafora, ancora una volta, della famiglia di origine, prima causa delle crepe profonde da cui sono attraversati gli uomini e le donne rappresentate e così preponderante in entrambi i lavori), rimasta in Sicilia mente lui si è allontanato in cerca di riscatto, molto bene evidenzia il baratro sul cui limite Anastasi intende lasciare il suo protagonista (interpretato in prima persona), in un eterno gioco di forza e resa con se stessi e con il mondo esterno, tra maschile e femmineo, tra il decidere e il subire, tra l’essere e il desiderare di essere altro.
Accanto a lui, a tratteggiare spaccati di umanità che affondano nella solitudine, nell’insoddisfazione, nell’ambiguità senza che nulla all’apparenza sembra possa salvarli, una prostituta greca innamorata di un’altra donna per seguire la quale si è ritrovata a lavorare in strada e ad essere ricattata, un travestito costretto a vivere in un corpo che non lo rappresenta, un cliente estremamente solo che si inganna di trovare conforto negli incontri sessuali con gli sconosciuti, una coppia che fragorosamente (e drammaticamente) scoppierà alla scoperta del tradimento di lui con un altro uomo.
Dunque una fiera della vanità all’inverso – potremmo definirla – quella che per più di un’ora sfila, a ritmo serrato, dinanzi al pubblico, mentre la costruzione e conseguente decostruzione di ciascun personaggio avviene sul fondo del palco, a vista di tutti, e senza che molto venga lasciato all’immaginazione ma reali, evidenti, diretti, talvolta fastidiosi risultino i dialoghi così come i gesti compiuti in un crescendo di disperazione che troverà nella morte (questa volta evidente a differenza di quella solo allusa in Io, mai niente con nessuno avevo fatto) la sua esasperazione finale.
Se da un lato, però, questa disamina degli uomini, della loro depersonalizzazione, del loro affanno a trovare qualsiasi cosa che colmi il vuoto che li circonda, risulta indubbiamente molto attuale e stimolante da indagare e scandagliare, e dunque un buon canovaccio da cui partire, dall’altro l’eccessiva estremizzazione con cui viene resa in scena sembra indebolirne, paradossalmente, l’effetto, opacizzando l’obiettivo espresso nelle intenzioni dell’autore (che attraverso Battuage – dichiara – vorrebbe «raccontare lo sforzo, la deformità e la necessità di queste anime di rimanere ognuna saldamente attaccata a questa propria personale deformità per non auto-definirsi del tutto morti»), con la conseguenza che al termine, anche se la storia non lascia indifferenti, ci si ritrova a chiedere se, probabilmente, il lavorare per sottrazione non sarebbe potuto diventare un’amplificazione del senso profondo dell’intera messinscena, costringendo chiunque, di qualsiasi orientamento sessuale e di qualsiasi estrazione sociale a riconoscervisi, senza il rischio di prenderne le distanze.
Intervista
Sia in Io, mai niente con nessuno avevo fatto sia in Battuage la realtà rappresentata è quella di una Sicilia degradata, in cui squallore e povertà, di sentimenti e di morale, sono ciò che caratterizzano l’esistenza degli uomini e delle donne di cui si racconta, per i quali è la famiglia disgregata nella quale sono cresciuti la principale miccia generatrice di tale disagio: perché avvertite l’esigenza, così forte, da autori e attori, di indagare e rappresentare proprio questa fetta di realtà esistenziale?
In realtà lo scenario all’interno del quale si muovono le due storie non è esattamente lo stesso. In Io, mai niente con nessuno avevo fatto utilizziamo la Sicilia per raccontare del nostro passato. Come fosse uno sguardo alle origini, lo spettacolo è un continuo salto indietro nel tempo per i personaggi. E così viene fuori un universo cristallizzato e quasi mitico, reso mitico proprio da quegli stessi personaggi che urlano il loro disperato bisogno di ritagliarsi un posto nella (S)toria, di esistere a tutti i costi, di appartenere a sé stessi. Battuage rappresenta la realtà filtrata dagli occhi di Salvatore, che è ormai scappato dalla Sicilia e che probabilmente non vi farà mai più ritorno. Se il tempo del primo spettacolo era il passato, il tempo di Battuage è il presente. Un tempo però che viene distorto, i cui estremi vengono tesi all’infinito per generare un presente che è un buco nero, destinato a durare in eterno e a trasformarsi quindi in una definitiva condanna.
La realtà che raccontiamo non rappresenta la scelta di parlare delle esistenze meno fortunate ma rivela, per noi, l’effetto di un degrado universale che corrompe tutte le anime a qualsiasi livello sociale.
In questo senso squallore, povertà di sentimenti e di morale e disgregazione sono termini che definiscono bene la nostra società. La famiglia resta indubbiamente il primo universo con il quale confrontarsi perché è, anche quando non esiste, una riproduzione in scala della società.
La ricerca della propria identità è ciò a cui tende ciascun personaggio, e ciò intorno alla quale si sviluppa ciascuna delle due storie, a testimonianza – sembra – della necessità/dovere, come compagnia, di doversi concentrare sulla conoscenza e scoperta degli uomini e della società in nome di un incessante tentativo di dargli una definizione precisa, con contorni delineati: è la vostra risposta/reazione ad una vita sempre più indefinita, incerta, in disequilibrio?
Certo, anche se forse si potrebbe parlare più di perdita ed incapacità d’identità, che di ricerca. Anche perché ricercare rappresenta comunque un valore positivo, mentre restare volutamente immobili rivela una viltà che non è né positiva, né negativa. È solo vuoto assoluto.
Quale il teatro che vi piace, da spettatori, e da cui, nello scrivere, dirigere e interpretare un testo, vi lasciate influenzare, volutamente o indirettamente, sia tecnicamente sia in termini di poetica?
Indubbiamente l’occasione di lavorare all’estero, viaggiare ed avere uno sguardo anche al teatro internazionale resta un’occasione preziosa. Ma anche partecipare per diversi anni alla Biennale Teatro di Venezia. Andiamo a teatro e al cinema spessissimo ma non possiamo parlare di un modello d’influenza particolare. La somma di tutte queste esperienze rappresenta il modello di riferimento, perché è lo scenario, contemporaneo, all’interno del quale ci muoviamo.
Oggi la contemporaneità è estremamente frammentata e restiamo comunque tutti dei pezzettini di uno stesso vaso in frantumi. Il tempo però sta modificando i contorni di ogni pezzo cosicché in realtà non è quasi più possibile ricostruire quel vaso. E forse non vogliamo neppure farlo. Noi apparteniamo alla generazione di chi non vuole avere padri e padroni, di chi quindi rifiuta un modello a-priori.
L’origine siciliana della vostra formazione si evince a partire dal nome che avete scelto per la vostra compagnia e dunque inevitabile si insinua il parallelo con la drammaturgia di Emma Dante di cui si riconoscono delle immediate tracce comuni (l’uso del dialetto, il lavoro incentrato sul corpo dell’attore): è voluto? O piuttosto subito e avvertito come una eredità da cui affrancarsi?
Nel nostro lavoro non c’è nessuna volontà né di rottura, né di continuità con il lavoro della Dante. Lei rappresenta una delle poche voci dell’isola che è uscita dai confini dell’isola stessa, ed è diventata una delle registe più importanti del nostro paese e porta il suo lavoro in giro per il mondo. Non ci sono poi, purtroppo, così tante compagnie siciliane che si occupano di drammaturgia contemporanea e che hanno grossa visibilità.
È quindi inevitabile che qualunque nuova realtà che “esca” dalla Sicilia subisca subito un paragone, con chi è venuto prima ed in questo caso con il lavoro, magnifico, della Dante. Ma non crediamo sia del tutto giusta la tendenza di creare degli insiemi all’interno del quale collocare tanti artisti.
Nel nostro caso siamo appena nati e forse tra qualche anno si potrà delineare qual è la nostra tendenza, i limiti e la caratteristiche del nostro teatro. E in sincerità speriamo anche che questi limiti possano ridefinirsi sempre perché anche l’arte come la vita deve essere in continuo mutamento.
Quali i futuri approdi verso i quali condurrete la vostra ricerca?
Ogni volta che creiamo uno spettacolo è come se cadessimo in una temporanea ma totalizzante ossessione. Al momento stiamo iniziando a lavorare ad un nuovo progetto, Yesus Christo Vogue. Siamo ancora ad una fase iniziale del lavoro, di ricerca e sperimentazione. Presenteremo un primo studio nell’ambito delle selezioni per “Teatri del Sacro”, al Teatro India a Roma. Si tratta di un lavoro estremamente diverso dai precedenti. Questa è oggi la nostra nuova ossessione.
Ileana Bonadies