Babel
Allo Spazio Teartulliano di Milano, lo storico mito legato alla leggendaria torre in costruzione si trasforma in commedia per la regia di Lucia Menegazzo.
Lo Spazio Tertulliano di Milano, che dal 2010 continua a dare voce a nuovi e giovani talenti del teatro italiano, ha accolto dal 7 all’11 Gennaio 2015 un ristretto ma brillante cast di artisti di diretta filiazione della Scuola Civica d’Arte Drammatica Paolo Grassi, impegnati nella messinscena di Babel: alla regia Lucia Menegazzo, sul palco Lorenzo Frediani, Gabriele Scarpino e Giuseppe Scoditti, armata di carta e penna Sara Meneghetti.
Il mito della torre di Babele è quanto mai noto, ma qui viene rivisitato e riscritto in maniera assolutamente originale, divertente e ponderata: con l’intenzione di arrivare al cielo e dunque a Dio, la leggendaria costruzione in mattoni viene commissionata agli uomini da due anziani – l’uno sbandieratore di aforismi dimenticati e filosofia pedissequa, l’altro vispo geometra sguainatore di metri pieghevoli in legno – che, a tutti gli effetti, sono intrappolati sia fisicamente che mentalmente in un’ideale turris eburnea sui generis, in cui solo ad una voce e poi ad un uomo è dato entrare. Accanto a loro, morto ormai da anni, lo scheletrino di un sacerdote, ancora munito di paramenti e mal accomodato su una sedia, che simboleggia la presenza costante della morte, che i due compari non sembrano voler riconoscere e considerare come tale.
A scombinare preparativi e messe in opera, uno straniero. Sarà lui – sotto non sospette mentite spoglie – a provocare una serie di catastrofi inattese (un’epidemia di rabbia, la disgregazione del popolo lavoratore e la sua precipitosa fuga nel deserto) facendosi investire di volta in volta di sempre più importanti cariche, fino a dare loro l’ultimo verdetto.
Di fatto, tre soli attori danno vita ad un rocambolesco racconto durante il quale risate e battute da commedia brillante conferiscono all’opera tutta una dimensione a sé stante: durante l’ora e un quarto di godurioso spettacolo si avvicendano continuamente siparietti ed a parte dal sapore squisitamente ironico e parodistico, subdole barzellette e narrazioni solo apparentemente sconclusionate animano un testo di massiccio impianto biblico stravolto ad hoc in vista di un esito oltremodo attuale: interrogare direttamente la divinità – ovvero lo straniero venuto da Cielo in terra a (miracol) mostrarsi – circa la sua esistenza, il suo scopo, la sua reale effettività. Di fronte alle ridicole leggi dei due vecchini, Dio conferma la sua onnipotenza, la sua onnipresenza e la sua onniveggenza divine. Riduce la coppia di decrepiti in cani randagi da ammaestrare. Abbindola coloro che lo circondano con un atteggiamento a metà tra l’eastwooddiano, il tronista da strapazzo e il caricaturale che attualizza la sua figura, consacrandola. Blandisce e aizza a seconda del risultato che vuole ottenere sugli uomini. Insomma: tutto è. A seconda di ciò che Lui decide.
Se il significato e le mille significanze del testo appaiono riconducibili tutte in base ad una lettura prettamente di matrice religiosa, così, però, non deve essere se la comprensione vuole essere totale e precisa e (forse, perché no) diversa da quella che magari presupponeva l’autrice (la quale, a braccio teso, lancia una bomba a scardinare certezze per poi ricomporle in base alle proprie definitive convinzioni): l’idea di potere che incessantemente governa la pièce, riguarda non solo Dio in qualità di Nume creatore di ogni cosa e di se stesso, ma incarna la sua immagine in altre. Dio è chi non solo professa la sua fede imponendo i propri precetti, ma è anche il regista che fa dei suoi attori degli animali da addestrare e abilitare alla creazione, è chi decide delle sorti dell’umanità senza interrogarla, è colui che non dà risposte ma offre solo sapide domande, è l’artista che prende con sé lo spettatore e lo copre della sua stessa aura.
Resta a noi seguire il proprio Dio o meno.
Erika Sdravato
Spazio Tertulliano
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