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Il Teatro Nuovo ospita, dal 14 al 18 gennaio, la prestigiosa regia del maestro Maurizio Scaparro che decide di portare in scena il romanzo incompiuto di Kafka, per ragionare sull’emarginazione e la diversità, temi quanto mai attuali ancora oggi a distanza di un secolo.

Foto Salvatore Pastore

Foto Salvatore Pastore

“Quanto è grande l’Amerika”, Karl Rossmann (Giovanni Anzaldo) lo scopre alla fine del suo lungo viaggio attraverso il Nuovo Continente. Il giovane uomo- cavallo (soprannome che gli deriva dall’etimologia del proprio cognome) è cacciato dalla sua città, Praga, e dalla sua terra, l’Europa, perché colpevole di aver sedotto una serva, la cameriera di casa, più anziana di lui di circa vent’anni, e di averla messa incinta.
L’infrangimento delle regole, che impongono sempre rispetto e onorabilità nei confronti della famiglia, fa in modo che i genitori di Karl, affranti da una così grave onta, spediscano il figlio il più lontano possibile, addirittura in Amerika, dove ad attenderlo, solo in apparenza a braccia aperte, c’è lo zio Jacob (Ugo Maria Morosi), potente imprenditore e senatore senza scrupoli.
La storia, così come lo spettacolo, ha inizio nel ventre di una nave, sulla quale il protagonista fa il suo primo incontro, non troppo fortunato, con un furbo fuochista tedesco. Durante la traversata s’intuisce che a Karl ne capiteranno di ogni, e tanto per cominciare smarrisce la valigia, fatta recapitare, in seguito, a casa del suo ritrovato parente. L’iniziale idillio con quest’ultimo s’interrompe presto, allorché il ragazzo, di nuovo non seguendo i precetti impostigli, trasforma le pedanti lezioni di lingua in un vivace charleston, tutto da cantare e ballare con la propria insegnante (Carla Ferraro).
È da questo momento in poi che cominciano le peripezie di Karl, ormai completamente solo e manco di una qualsivoglia guida. Mandato via, anche dallo zio Jacob, con una lettera e un biglietto di terza classe per San Francisco, forse la “direzione giusta” per uno sbandato come lui, Karl s’imbatte in due scapestrati disoccupati, l’irlandese Robinson (Fulvio Barigelli) e il francese Delamarche (Giovanni Serratore). Il sodalizio fra i tre è quasi automatico e il sedicenne praghese percorre con i suoi nuovi compagni d’avventura un poco di strada insieme. Fin quando non trova impiego presso un albergo, ma soprattutto fin quando non resta deluso dai compari che frugano nella sua valigia, perdendo la foto dei genitori.
La valigia, da cui Karl non si separa mai, è lo spazio dei suoi ricordi, è l’appiglio che ancora lo lega al nucleo familiare e civile che ha dovuto abbandonare, e la fotografia dei suoi cari è l’emblema di quell’amore che egli prova verso di loro ma che gli è stato negato.

Foto Salvatore Pastore

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La sorte non gli arride neanche all’Hotel Occidental. Qui, un vivace e imbroglione ragazzotto italiano (Matteo Mauriello), un suo collega di lavoro, mentendo col capo fa licenziare il ragazzo di Praga e a nulla vale la sincera amicizia, fatta di reciproche confidenze su un passato lontano, incrociata con la cuoca.
È l’ennesimo luogo dal quale Karl va via e si fa sempre più chiara l’idea che, allusivamente, la ragion per cui egli viene isolato puntualmente e ogni volta è percepito come nemico da chi gli è difronte, è la sua diversità, talvolta non accettata neanche da lui, se riscontrata negli altri.
La diversità, che è condizione sociale, etnica, mentale, è endemica nel disegnare una multiforme umanità ed è precipua nel delineare la figura dell’emigrante, quale è Karl, simbolo per eccellenza del viaggiatore europeo, pieno di speranza, ai primi del ‘900 e dell’uomo, di ogni tempo, viandante in ogni luogo, nell’epoca della globalizzazione.
Per ricevere approvazione dal prossimo e sopravvivere, dunque, è necessario compiere una personale discesa verso l’omologazione. È quanto avviene a Rossmann, quando sottoscrive il reclutamento nel gran teatro di Oklahoma, in fin dei conti il gran circo del mondo. Su questo onirico baraccone, tra mascherate di angeli e demoni con tanto di forcone, si ritrovano vecchie e nuove conoscenze, che convivono le une accanto alle altre. Ora tutti sono uguali, pur continuando ad esser stranieri in una Nazione che li ha spersonalizzati. Niente documenti, nessuna identità, c’è bisogno solo di un nome per far parte della compagnia e Karl sceglie NEGRO, sintomatico appellativo per connotare questa rinnovata forma di schiavitù.
Siamo in un reale teatro, in attesa di allestire una rappresentazione? Oppure siamo in una camerata di soldati, in una fabbrica o in campo-profughi? L’impressione è quella che abitiamo un sistema nel quale una fascia gialla al braccio è l’unico segno distintivo che identifica il nostro ruolo sul palcoscenico.

Foto Salvatore Pastore

Foto Salvatore Pastore

La minuziosa direzione di Scaparro, elegante quanto mai a partire dalla cura dell’aspetto estetico (dalle scene di Emanuele Luzzati, riprese da Francesco Bottai ai costumi di Lorenzo Cutuli), sino ad arrivare alla precisa recitazione di tutti gli attori, nessuno escluso, indaga l’intera questione, muovendosi soprattutto all’interno del testo e a favore di esso, di fatto restituendo alla parola tutta la lucidità che la letteratura kafkiana esige e una pregnante attualità delle argomentazioni.
Il romanzo, scritto tra il 1911 e il 1914, incompiuto e perciò pubblicato postumo solo nel 1927, designa la vicenda in frammenti e l’impianto registico ha assecondato questa tendenza. Ai quadri, interpretati hic et nunc, si contrappone il racconto, rivolto al pubblico, di Rossmann, che si mantiene dentro e fuori le scene, simultaneamente attore e spettatore di se stesso. I pensieri di Franz Kafka, tradotti ed adattati per l’occasione da Fausto Malcovati, sono stati impreziositi dall’alternanza della musica dal vivo in sala. Il piano (Alessandro Panatteri), la batteria (Andy Bartolucci) e il clarinetto (Simone Salza) non solo cullano e sottolineano gli umori e le battute dei personaggi, ma sono fondamentali nella descrizione delle culture messe a confronto sulla scena, mediante le sonorità yiddish che si trasformano in tanto jazz e rag-time.
La pièce, promossa nel 2000 e riproposta nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia lo scorso anno, in concomitanza del Semestre di Presidenza Italiana dell’Unione Europea, con l’intento manifesto di puntare i riflettori sulle problematiche connesse all’emigrazione e all’immigrazione, ha scelto Napoli per dare l’avvio alla tournée nazionale che si concluderà a marzo. Infine, volendo unirci anche noi a questo saluto, fa piacere segnalare che gli attori, il regista e la produzione de Gli Ipocriti hanno omaggiato il maestro e cineasta Francesco Rosi, recentemente scomparso, con la dedica della prima replica di Amerika.

Antonella D’Arco

Teatro Nuovo
Via Montecalvario, 16- Napoli 80134
Info e prenotazioni:
tel. 0814976267
email. botteghino@teatronuovonapoli.it
Inizio delle rappresentazioni:
ore 21.00 (feriali), ore 18.30 (domenica)

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