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Al Teatro dell’Orologio, Fausto Paravidino traduce la malattia in un dialogo agrodolce di intima poeticità.

Foto di Manuela Giusto

Foto di Manuela Giusto

In una linearità esile e posticcia, quella dei contorni ferrosi delle sedie, di una porta, dei ripiani, in un minimalismo poderoso, definito da pochi oggetti personali e qualche costume, e da una quinta sobria, disegnata da pannelli posti a semicerchio da riempire con videoproiezioni, Fausto Paravidino converte gli appunti mentali ed emotivi della madre (che ha volto e voce di Monica Samassa), scomparsa a causa di un tumore poco più che sessantenne, in una drammaturgia delicata e sussurrata, e in una regia sottile e carezzevole. Il diario di Maria Pia, in scena al Teatro dell’Orologio fino al 25 gennaio, è un rispettoso percorso tra le parole scritte e pronunciate, tra le sensazioni svanite e desiderate, tra i pensieri corporei e impalpabili di una donna la cui esistenza, dedicata alla professione medica e alla famiglia, si affievolisce poco per volta sotto il peso della malattia debilitante, dell’immobilità avvolgente (su una sedia a rotelle dagli scarni e macabri lineamenti) e dell’apatia sorda e penetrante.

Foto di Manuela Giusto

Foto di Manuela Giusto

Paravidino rende teatrale ciò che, per sua natura non lo è: l’attesa, l’assenza di azione, la sospensione temporale. È una consistenza astratta, quasi surreale quella che il giovane autore alessandrino dà alla malattia: una forma plasmata dalla coscienza dei numerosi personaggi-narratori (tutti interpretati dallo stesso Paravidino e da Iris Fusetti) che gravitano attorno all’immaginario letto di ricovero dell’ospedale di Ovada. Sono umanità accennate da semplici e rapidi travestimenti: bastano un paio di occhiali e i pantaloni tirati su per evocare lo zio Cesare, un camice bianco per richiamare l’oncologa dalla cinica professionalità, un cerchietto con annessi capelli raccolti in bizzarri codini per ritrarre Marta, sorella di Fausto, e il suo concentrato d’euforica infantilità, un boa di piume nere al collo e una flebo in vena per dare consistenza a Dominique e alle sue folli e filosofeggianti riflessioni. Nascono dalle pagine della vita per essere testimonianza diretta e reale di coloro che rimangono al capezzale, camminando accanto alla malattia, guardando negli occhi, nel cuore e nell’anima una vita che accetta, senza rassegnazione, di abbandonarsi gradualmente a una spossata inerzia, a un muto svuotamento di energia vitale, psichica, affettiva. E in questo angusto spazio di sguardi privati, di greve serenità, di ossequiosa tolleranza, si scioglie un dialogo a più voci fatto di placida comicità e quieta drammaticità. Le voci, i silenzi e i gesti dilatati, rallentati (al limite dell’eccessività) fino quasi a interrompersi, sono riflesso di un’esistenza lontana dalla vita e dalla morte che assume la consistenza di una memoria passata, sfuggita al tempo, e afferrata da una teatralità metanarrativa che nega se stessa nell’esatto istante in cui si manifesta, che dichiara il suo essere fittizio ma che, tuttavia, riesce a donare concretezza pulsante alle presenze svanite, alle domande ignorate, a quei momenti comuni la cui banale trascurabilità s’illumina ora, per la prima volta, inedita meraviglia.

Nicole Jallin

 

Teatro dell’Orologio
Via dei Filippini, 17/a, Roma
Contatti: 06 687 5550 – www.teatroorologio.com
orari: da martedì a sabato ore 21:30 – domenica ore 18:00

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