“Il caso Braibanti”, storia di uno scandalo giudiziario
Il processo a cui fu sottoposto l’intellettuale partigiano accusato di plagio, rivive nella drammaturgia di Palmese riportando alla luce uno degli eventi ai danni della libertà che più segnò la storia italiana del Novecento. In scena al Teatro dei Conciatori di Roma fino al 25 gennaio.
Con una luce bluastra scagliata su due sedie trasparenti, le note graffianti del sassofono di Mauro Verrone e le sfumature delle voci, ora accorate ora ironiche ora impetuose, di Fabio Bussotti e Mauro Conte, l’opera Il caso Braibanti, diretta da Giuseppe Marini, sul palco del Teatro dei Conciatori di Roma dal 13 al 25 gennaio prossimi, immerge lo spettatore nell’agonia processuale di Aldo Braibanti, in un’atmosfera sfibrante, noir.
Braibanti, classe 1922, artista, poeta, insegnante di filosofia, mirmecologo, ex partigiano piacentino morto lo scorso aprile, è passato alla storia italiana per essere stato condannato dalla Corte di Assise di Roma, il 14 luglio 1968, a nove anni di carcere (dopo quattro anni di processo), “per aver assoggettato fisicamente e psichicamente” Giovanni Sanfratello, all’epoca ventitreenne; quest’ultimo, secondo l’accusa, sarebbe stato convinto da Braibanti ad abbandonare la famiglia di origine, in Emilia Romagna, per andare a vivere con lui a Roma. Il reato per cui Braibanti è stato condannato è quello di “plagio”, allora contemplato nell’art. 603 del codice penale, norma abrogata nel 1981 perché dichiarata incostituzionale. È stata l’unica condanna per plagio nel nostro Paese.
La pièce si basa sul certosino lavoro di Massimiliano Palmese che, attraverso documenti di archivio, cartelle cliniche, lettere, arringhe, ricostruisce la storia processuale dell’intellettuale, definita da Umberto Eco “Non un caso giudiziario, ma politico e civile”. Il personaggio di Braibanti, pacato, schivo, riflessivo, è brillantemente interpretato da Fabio Bussotti, quello di Sanfratello, pronto a difendere il suo maestro e l’autenticità e spontaneità della loro relazione, è affidato alla espressività irruenta e passionale di Mauro Conte.
Nelle sfumature della voce ben calibrata e nell’espressività del viso di Bussotti e Conte, prendono corpo tutti gli altri personaggi della vicenda: lo psichiatra di Sanfratello dalle “r” mosce e il cinico snobismo; il curato dai giudizi anemici; i corrotti testimoni piacentini dal dialetto colorito; Ippolito Sanfratello, padre di Giovanni, dalle idee liberticide e le parole crude ed affilate; il pubblico ministero con le sue manipolazioni della legge e i pamphlet moralistici. I dialoghi tra i vari personaggi sono amalgamati dalle note del sassofono di Verrone che valorizza o contrasta le affermazioni degli attori, alleggerisce o rende ancor più inquietanti le loro descrizioni.
Quello che il regista Giuseppe Marini mette in scena è un processo condotto da giudici e periti appartenenti ad un’area politica (destra) antagonista rispetto a quella di Braibanti, un processo alla libertà di pensiero, alle emozioni, ai sentimenti, alla morale sessuale.
A smorzare la tensione e rivestire di calore umano le invettive del processo, sono le accorate lettere che Braibanti scrive in carcere alla madre, le appassionate dichiarazioni di affetto che Giovanni Sanfratello rivolge al suo compagno sotto processo, mentre lui, invece, viene sequestrato dai genitori, tradizionalisti di destra, dal cattolicesimo bigotto, preoccupati di avere un figlio ateo, artista ed omosessuale. Per far “guarire” Giovanni dall’omosessualità (“l’omosessuale nel 1968 era come il diavolo”) lo internano per 15 mesi negli ospedali psichiatrici, sottoponendolo a 40 elettroshock.
Caso tra i più attenzionati e dibattuti alla fine degli anni Sessanta, che scatenò la reazione di intellettuali quali Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Dacia Maraini, Ginevra Bompiani, lo spettacolo ne ripercorre le fasi in un sussurro poetico che attraversa l’intera messinscena per poi sfociare nel canto finale “trasvoliamo” che unisce Braibanti e il suo ragazzo in un abbraccio intenso, che, vincendo i “plagi” delle autorità mediche, giudiziali e familiari, nella finzione scenica e nella libertà del teatro, trova il suo riscatto e la sua vitalità.
Elvira Sessa
Teatro dei Conciatori
Via dei Conciatori n. 5, Roma
Tel 06.45470031/06.45448982
Spettacoli dal martedì al sabato alle ore 21 – Domenica alle ore 18