Teatro e carcere: Mimmo Sorrentino
Continua la nostra inchiesta finalizzata a raccontare coloro che operano, attraverso il teatro, in realtà fortemente caratterizzate dal disagio: in vista del suo nuovo spettacolo Adesso che hai scelto in programmazione dal 24 al 26 febbraio al Teatro Due di Roma, abbiamo intervistato il fondatore della cooperativa Teatroincontro.
Mimmo Sorrentino è nato a Salerno nel 1963. Laureatosi in Scienze Politiche all’Università degli studi di Urbino, è docente di “Teatro partecipato” presso la scuola “Paolo Grassi” di Milano e ad oggi, con il suo metodo di lavoro ispirato ad un criterio proprio delle scienze sociali, ovvero “l’osservazione partecipata”, numerosi sono gli spettacoli realizzati partendo da una personale e profonda osservazione della società italiana: Nel libro di Mastronardi (premio drammaturgia in\finita Teatrorizzonti Urbino), Bingo (Selezionato al festival Opera Prima Festival di Rovigo), Il messaggio (Selezionato a Scena Prima), Quesalid, I Serbi vogliono la rivincita, Salmo 130, Da Mistretta a Godel, La storia di Carlo e Luigia, Case Popolari, Ave Maria per una gattamorta (segnalato al Premio Ater Riccione. Finalista al Premio UBU 2008, tradotto e pubblicato in Francia), L’Infinito viaggiare, Fratello Clandestino, Sono Aperta ( Testo finalista nel 2009 al Premio Ater Riccione), Vigili del fuoco, Vado Via (testo tradotto e rappresentato in Francia).
Nel 2009 vince il Premio Enriquez per l’impegno civile, a cui fa seguito, nel 2014, il Premio ANCT – Teatri delle diversità. Attualmente è in tournée con Adesso che hai scelto, raccolta dei monologhi interpretati precedentemente nel programma di Radio Tre Piazza Verdi, nei quali il drammaturgo racconta la straordinaria vita delle persone incontrate durante il suo percorso teatrale, dai detenuti ai rom, dalle casalinghe agli attori, dagli studenti ai commercianti ambulanti.
Come e quando ha iniziato a fare teatro? Quando ha iniziato a lavorare con le persone disagiate e, in particolare, con i detenuti?
Ho iniziato a fare teatro all’Università di Urbino nell’ormai lontano 1988 con uno spettacolo dal titolo Contro con la voce. Non avevo nessuna conoscenza teatrale né di scrittura e né di regia ma molta incoscienza. E come me tutti quelli che mi seguirono nell’impresa. Studenti di sociologia, filosofia, giurisprudenza, dell’ISEF, i cuochi delle mensa. In scena eravamo più di trenta. Lo spettacolo era di tre atti. Eravamo incoscienti però coscienti che ci si stava divertendo tanto e che valeva la pena continuare. Lo spettacolo fu un successo per cui continuammo. Il secondo spettacolo, inserito in una rassegna ufficiale, fu un fiasco e ci divertimmo molto di meno perché ci scontrammo con problemi più grandi di noi. Nonostante ciò continuammo lo stesso. Mi trasferii a Vigevano, città all’epoca con il più alto tasso di giovani suicidi in Europa. Una città più disagiata non potevamo cercarla per cui è stato quasi naturale iniziare a occuparmi di persone in difficoltà. Io non lavoravo con attori, che poi non sono tanto meno disagiati degli altri, ma con amatori. Quindi mi sono specializzato a far sì che dei non attori fossero credibili in scena. Con i detenuti ho iniziato a lavorare solo nel 2012.
Nel 2009 ha insegnato “Teatro partecipato” presso la scuola Paola Grassi di Milano, oltre ad aver scritto un libro su questo tema. Può spiegare cosa intende per “Teatro partecipato”? In che modo adopera questa metodologia nel suo lavoro in carcere?
Il Teatro partecipato è sempre, come dico nel mio programma radiofonico a Radio Tre Piazza Verdi, una storia d’amore tra l’ascolto e la parola. Ti invitano in un contesto, ti fai riconoscere, citando un’espressione di Lacan, come soggetto supposto sapere, e per farlo metti in atto le tue competenze. Poi inizi a proporre dei temi su cui scrivere o raccontare oralmente, li trascrivi, fai leggere al gruppo quello che hai scritto a partire dalle loro storie e gli chiedi se sono intenzionati a recitarlo. Se lo sono li porti in scena. Prima nel contesto dove è nato il lavoro. Ad esempio se sono studenti, a scuola. Se sono stranieri ospiti di comunità, in comunità. Se ritieni che il lavoro possa interessare anche un pubblico generico, allora ti metti alla ricerca di un produttore. Con i detenuti è stato lo stesso. Li ho invitati a scrivere preghiere, non perché sono credente, non lo sono, ma perché volevo fare un lavoro sulla libertà e quindi mi è sembrato furbo partire dal linguaggio e la preghiera è il linguaggio, almeno secondo me, più libero che gli uomini si siano inventati.
Quali sono gli obiettivi che si propone quando inizia un’attività con i detenuti?
Conoscere. Conoscere cosa di loro c’è in me ma che io non so di avere. Ma questo accade con tutti i gruppi con cui lavoro, compreso i malati di Alzheimer.
Come viene strutturato il laboratorio?
Di solito propongo degli esercizi teatrali molto difficili così loro non riescono a farli e io gli spiego il perché e, nel capire perché non riescono, posso aiutarli a capire le loro difficoltà emotive ed espressive. Poi faccio scrivere dei testi., ci lavoro e proviamo a recitarli. In verità, in carcere non è che vi sia un programma preciso perché bisogna adattarsi alle varie esigenze della struttura: non vi è mai la certezza della prova così quando riesci a farne una buona ti senti felice come quando arrivi su una cima ai quattromila.
Lei afferma che quando ha iniziato a lavorare in carcere si è accorto di non conoscere la “grammatica del carcere”. Com’è riuscito a superare questa sorta di limite?
Facendomela spiegare. Era importante conoscerla. Non per parlarla. Io non parlo la lingua del carcere, io parlo la lingua di chi vive altrove ma conoscerla mi permette di tradurre loro la mia di lingua, oltre che comprendere quella dei detenuti.
Di recente ha portato in scena all’Elfo Puccini di Milano lo spettacolo Terra e acqua in cui è riuscito a coinvolgere attori-detenuti, politici, studenti e agenti di polizia penitenziaria. Può spiegarci le tappe che hanno portato alla realizzazione di questo spettacolo? I risultati ottenuti sono stati soddisfacenti?
Nel corso del laboratorio con i detenuti spesso mi è capitato di raccontare ciò che provano in carcere. Ad esempio, a un certo punto, ho raccontato ciò che provano nei colloqui: li aspettano con ansia. Si preparano ma poi quando sono davanti alle persone care, quelle che li fanno stare in piedi, la tensione si fa così forte che non vedono l’ora di rientrare in cella. Allora uno di loro mi ha chiesto come facessi a saperlo, se ero stato in carcere o se ci fosse stato un mio parente. Ho risposto che non ero mai stato in carcere prima di allora e che se lo sapevo era perché c’era un carcere in ognuno di noi, altrimenti non avremmo potuto inventarlo. Ho esteso la riflessione alla città attraverso una rubrica che conduco sul giornale locale e così la città si è interrogata sul carcere che ognuno ha dentro di sé compreso il vescovo, i politici ecc. Poi il progetto prevedeva una apertura del carcere verso la città e viceversa per cui ho chiesto a politici, studenti e agenti di polizia penitenziari se volevano recitare con i detenuti: hanno accettato. Non è stato facile costruire un gruppo unico, ma il risultato sembra sia stato molto apprezzato come lo spettacolo.
Come viene recepita l’attività teatrale dentro e fuori le mura del carcere?
Sia dentro che fuori dal carcere il tutto viene recepito come una possibilità di crescita personale prima ancora che comunitaria.
Secondo Lei, cosa possono fare le istituzioni per migliorare questo tipo di attività?
Investire più soldi. Trasformare il carcere in un luogo di formazione e non solo di detenzione. Paradossalmente una volta dissi ai detenuti che loro dovevano avere nostalgia del carcere. Chi ha nostalgia spesso ritorna nei luoghi della nostalgia, come le città o i paesi in cui si è nati, ma poi va via. Perché ci sia nostalgia bisogna che abbiamo un buon ricordo del luogo che abbiamo abbandonato. Quindi, perché ci sia nostalgia è necessario che in carcere accadano cose interessanti, belle. Ma ciò che invece accade è che i detenuti vogliono scappare. Comprensibile. Ma chi scappa, come insegna la tragedia greca, vedi Edipo, ritorna sempre nel luogo da cui scappa. E non è un caso se il 90 per cento dei detenuti è recidivo. Ecco, bisognerebbe che in carcere accadessero cose belle.
Giulia Esposito