Don Giovanni o il Convito dell’ipocrisia
Al Teatro Diana dal 21 gennaio al 1 febbraio 2015, Alessandro Preziosi, nei panni del noto personaggio, rilegge un classico della drammaturgia europea, nella versione di Molière. Accanto a lui sulla scena Nando Paone, nel ruolo del fido Sganarello.
Nel buio di una platea gremita, in occasione della prima dello spettacolo, si apre il sipario e, al di là della tela rossa, s’intravedono due sagome che si sfidano a duello, quasi danzando in scena, sopra le note di If dei Pink Floyd e sullo sfondo di una videoproiezione che fa convivere insieme metafisiche geometrie e fluttuanti e fumosi schizzi di colore, come se l’intero palcoscenico fosse in realtà una tavolozza su cui dipingere un quadro. È questa la visione estetizzante che Alessandro Preziosi, in qualità di regista, oltre che d’interprete, sottende all’intero impianto della rappresentazione.
Se da un lato, le scene (di Fabien Iliou), che si avvalgono di tecnologie multimediali, e le musiche (quelle originali sono a cura di Andrea Farri) restituiscono suggestioni contemporanee, in forza del potere unificatore ed universale che suoni e immagini hanno, attraverso i secoli, dall’altro, i costumi (di Marta Crisolini Malatesta) appaiono coevi all’opera e quindi cristallizzati nel periodo in cui la leggenda di Don Giovanni cominciò a circolare.
In tal modo si crea un corto circuito temporale, o per meglio dire a-temporale, che, almeno in un primo momento, sembra funzionare ed avere una ragion d’essere all’interno di una direzione fortemente tesa al realismo della vicenda. Però quelle che paiono, in origine, felici intuizioni di senso, volte ad un labile simbolismo, ad un certo punto, si perdono o mancano di coerenza.
Il ceruleo damerino, ritratto di quel gentiluomo manigoldo, elegante corteggiatore che sfoggia tutti i suoi vezzi galanti, aspirando ad esser “il promesso sposo dell’intero genere femminile”, con quella parrucca bianca, l’abito luminosissimo e il suo incarnato marcatamente candido sembra la prefigurazione della statua del commendatore che ha ucciso nel profilo d’apertura, e, allegoricamente, pare essere inoltre la prefigurazione di se stesso, del manichino di pietra nel quale il Cielo, con cui egli è in perenne combutta, lo trasforma. Ma quest’aspetto allusivo, che si sarebbe potuto mantenere sino alla fine, lascia il posto ad altre elaborazioni della regia.
Anche l’utilizzo delle proiezioni cambia durante la pièce. Se dapprima esse giovano nel creare nebulosi paesaggi che sospendono la storia in un luogo del nulla e in un’epoca del sempre, attualizzandola in questo straniamento, poi, la loro eccessiva presenza comincia ad essere invasiva. Benché esse servano a mantenere l’escamotage di trovarsi all’interno di un dipinto, che a poco a poco è disvelato, iniziano a delineare scenografie visivamente sempre più consistenti e contingenti. Si potrebbe ipotizzare che la marcata multimedialità, la resa tridimensionale della statua parlante del commendatore, animata da una voice off (diversi e molteplici sono gli elementi mutuati dal cinema), sia stato un omaggio al teatro barocco del Siglo de oro, da cui proviene il Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, un’altra autorevole fonte da cui attinge la sua natura il Don Giovanni, e che aveva nella meraviglia il suo motore d’azione. Resta però difficile da credere che il pubblico odierno, abituato a qualsivoglia illusionismo ottico, si sia stupito difronte a tali marchingegni virtuali, per cui ne è derivato solo che a risentirne in eleganza, e non poco, è stato il complessivo gusto estetico.
Nella sua personale discesa verso le fiamme, l’occhio di Preziosi ha preferito accompagnare Don Giovanni, con i colori dei suoi umori, in buona sostanza quelli dei suoi abiti che, sul palco, determinano luci e ombre dei personaggi toccati dal protagonista.
Così il primo atto, caratterizzato dalla frivolezza, dalla giocosità, dagli inganni, dalle sfacciate bugie che allestiscono divertenti farse tra contadinelle innamorate e siparietti altrettanto arguti tra il signore e il suo servo Sganarello, complice suo malgrado delle malefatte del padrone, risplende di toni chiari, pronti ad incupirsi laddove s’intuisce che la conversione di Don Giovanni è ben lontana dall’avvenire. A tal proposito si ha sentore che ciò non accadrà mai nel significativo episodio del mendicante, al quale l’illustre lestofante cerca di estorcere una bestemmia in cambio dell’elemosina di una moneta d’oro. Ancora una volta il nobile sfida Dio. Giovanni Tenorio non è altro che un miscredente ai limiti dell’empietà, un capriccioso cicisbeo, viziato e vizioso incurante delle conseguenze del proprio agire. Il ruolo di inarrestabile ed incallito seduttore, che per secoli gli è stato cucito addosso, è la manifestazione del suo essere ateo, nei confronti di ogni credo, a prescindere dalla religione, che lo rende colpevole dinanzi al devoto Sganarello.
L’indignazione del servo nasce dalla derisione del sacramento del matrimonio che, senza darne alcun peso d’importanza, il suo padrone promette ad ogni nuova conquista, e dalla sincera sfacciataggine con cui egli difende la sua “miglior virtù”, l’ipocrisia, in un’accorata apologia sull’argomento. È tutta qui l’essenza del testo originale, rispettata e condivisa fino in fondo nella traduzione e nell’adattamento di Tommaso Mattei, grazie al quale la costruzione del contrasto tra Sganarello e Don Giovanni è perfettamente compiuta. I due sono la personificazione di altrettanti diversi e opposti modi di stare al mondo, di cui nessuno ha ragione sull’altro. L’interpretazione di Nando Paone non riduce la figura del furbo servitore a maschera della Commedia dell’Arte, ma tratteggia un uomo, onesto fin quando gli conviene, fedele nello svolgere il suo lavoro, timorato di Dio e meno superstizioso ed ignorante di quanto esca dalla penna di Molière. L’attore, rigoroso, attento, ideale compagno di scena, pur ricoprendo un incarico da co-protagonista, è generoso nel non offuscare mai il suo signore. Anche Alessandro Preziosi dà una buona prova d’interprete, che purtroppo tanta fiction televisiva non rende. Dotato delle sfumature che occorrono per affrontare la caustica scrittura del drammaturgo francese, ha grazia e potenza quando si trova ad essere, alternandosi, Don Giovanni e Don Luigi, suo padre, nel tentativo di convincere il figlio verso un percorso di redenzione. Ma, inascoltato, il genitore, che ha la stessa voce del peccatore, resta solo l’emblema di una scomoda coscienza rifiutata.
Da ultimo dispiace far notare che il resto del cast non è stato all’altezza del progetto, presentato da Khora Teatro e Teatro Stabile D’Abruzzo. Il restare chiuso in un carattere, o eseguire le battute con ritmo monocorde o ancora il cercare l’emozione di un sentimento, quale la commozione, quasi recitar piangendo, lascia dedurre che tutti sembrano non aver seguito, negli intenti, l’operazione di ibridazione che la regia ha cercato di mettere a punto. Forse, volendo, sopra ogni cosa, dar priorità all’integrità del testo e contemporaneamente far parlare, oggi, un classico del teatro moderno di circa trecentocinquanta anni fa, sarebbe stata necessaria una maggior consapevolezza nel mescolar i codici performativi tra di loro e sarebbe stato opportuno trovare il giusto equilibrio in una recitazione da rivolgere sempre alla ricerca della verità.
Antonella D’Arco
Teatro Diana
Via Luca Giordano 64, Napoli
Tel: 081.5567527
Orari spettacoli: ore 21.00 (lun-ven) ore 18.00 (domenica)- sabato ore 17.30/21.00 – mercoledì, 28 gennaio, ore 17.45