Mastro don Gesualdo, emblema della moderna alienazione borghese
Al Teatro Bellini di Napoli sarà in scena, sino a domenica 25 gennaio, il capolavoro di Giovanni Verga nella originale trasposizione realizzata da Guglielmo Ferro.
Un grande, antico letto in ferro battuto campeggia su un lato del proscenio, stagliandosi prepotentemente sullo sfondo di uno scenario scarno, essenziale. Un’atmosfera rarefatta e cupa avvolge tutto, divertendosi a ridisegnare i contorni delle cose in un continuo gioco d’ombre. Seduto sul letto c’è un uomo, vecchio e gravemente malato, intento a ripercorrere tra sé e sé le vicende della sua travagliata esistenza. La sua voce, roca e graffiante, è come una stilettata che squarcia d’improvviso la coltre di silenzio e di solitudine che lo avviluppa come in uno spesso manto di dolore. Il suo racconto è un lamento sofferente ma lucido, fatto di quella vertiginosa lucidità che solo il momento dell’estremo passo può conferire. La straziante consapevolezza dell’approssimarsi della morte, infatti, induce l’anziano signore a ricostruire la trama sottile della sua vicenda personale, a stilare un bilancio definitivo e implacabile al culmine del proprio cammino. L’imminenza della morte, dunque, diviene meditatio vitae attraverso il ricordo, la rammemorazione, in un procedimento analettico in cui la narrazione procede per continui rimandi al passato, rimestando e setacciando gli eventi nello strenuo tentativo di far luce sul presente, sui propri errori, su ciò che si è irrimediabilmente diventati.
Così ha inizio il Mastro Don Gesualdo che ha fatto il suo debutto al Teatro Bellini di Napoli lo scorso 20 gennaio e che resterà in scena sino a domenica 25. La regia dell’opera verghiana, nella rielaborazione drammaturgica di Micaela Miano, è affidata a Guglielmo Ferro, figlio del grande e compianto attore siciliano Turi Ferro che del romanzo di Verga fu splendido interprete nell’ormai lontano 1967.
Secondo capitolo, dopo i Malavoglia, dell’incompiuto “ciclo dei vinti”, Mastro Don Gesuado venne pubblicato nel 1889 e può di certo essere considerato tra i romanzi più significativi della poetica di Giovanni Verga. La storia si svolge a Vizzini, centro agricolo del catanese, tra il 1820 e il 1848 e narra l’ascesa e la caduta di “mastro” Gesualdo Motta (Enrico Guarneri), un ex manovale assurto al titolo di “don” a forza di duro lavoro e di enormi sacrifici. La sola ricchezza materiale, tuttavia, non gli basta. Mosso da una cieca determinazione e da una ancor più grande ambizione, Gesualdo ricerca pervicacemente anche un riscatto sociale, decidendo così di sposare Bianca Trao (Francesca Ferro), una giovane donna appartenente a una famiglia nobile seppur economicamente in rovina. Bianca, però, non lo ama affatto e accetta suo malgrado di sposarlo perché costretta dalle circostanze. All’insaputa di Gesualdo, infatti, Bianca è già incinta in seguito a una relazione con il ricco cugino Ninì Rubiera (Rosario Marco Amato), relazione alla quale la madre di questi, la Baronessa Rubiera (Ileana Rigano), si oppone con tutte le sue forze, impedendo che possa concludersi con un matrimonio. Nasce così Isabella (Maddalena Longo Chiavaro) che, divenuta grande, proverà sempre vergogna per le umili origini del padre putativo e non riuscirà mai ad amarlo, per quanto quest’ultimo si prodighi per lei e la vizi continuamente accontentando ogni suo desiderio. Innamoratasi del cugino Corrado La Gurna, anche Isabella sarà infine costretta, come la madre, a ricorrere ad un matrimonio riparatore, sposando un nobile palermitano squattrinato e dissipatore dei beni del suocero. Intanto Mastro don Gesualdo, che ha perso la moglie ammalata di tisi, è costretto ad abbandonare il paese in rivolta per i moti del ’48 e a rifugiarsi a Palermo, relegato in una stanza del palazzo della figlia dove, ormai malato di cancro, morirà in totale solitudine e irriso dai servitori.
La regia di Guglielmo Ferro si è avvicinata in punta di piedi al capolavoro verghiano, restituendone una trasposizione discreta, contenuta, priva di facili eccessi e senza alcuna smania di apporre il proprio sigillo interpretativo sull’opera, fedele a quella “poetica dell’impersonalità” che vuole che l’autore non intervenga direttamente con il proprio punto di vista sulla vicenda, ma lascia che siano gli stessi fatti narrati a prodursi da sé come per necessità naturale. Così anche la scenografia è volutamente minimalista, essenziale, con poche ma efficaci soluzioni tecniche capaci di catalizzare l’attenzione sulla carica espressiva degli attori in scena, tutti indistintamente bravi. Tra di essi spicca senz’altro Enrico Guarneri, che con sapiente maestria ha vestito in modo mirabile i panni di Mastro don Gesualdo, conferendogli quel pathos tragico tipico di un’umanità ormai completamente asservita al denaro, alla “roba”, affetta da un analfabetismo emozionale che la condanna inevitabilmente alla più agghiacciante solitudine. È una malattia dello spirito, però, di cui i personaggi verghiani non hanno coscienza né avvertono il disagio. Anche la morte di Mastro don Gesualdo, con cui si chiude la vicenda, è così spogliata di ogni solennità e umana compassione, consegnata com’è alla irrisione di chi sopravvive. Ed è proprio questo imbarbarimento, questa alienazione, tipici della moderna società borghese completamente appiattita dalle dinamiche di un materialismo estremo, che Guglielmo Ferro ha voluto con forza far emergere nel suo lavoro, quasi un monito attraverso il quale indurci a riconsiderare con maggiore consapevolezza il nostro stesso presente.
Armando Mascolo
Teatro Bellini
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