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Al Teatro Bellini di Napoli il mito omerico secondo l’ironica versione immaginata dalla pluripremiata autrice e regista siciliana, qui anche in veste di attrice insieme a Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola.

Fonte foto Ufficio stampa

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Predisporsi alla visione da un nuovo punto di vista, così come da un nuovo punto di vista la storia drammatizzata è raccontata, ricordata, rivissuta. Questo è quanto bisogna fare assistendo a Io, Nessuno e Polifemo, testo e regia di Emma Dante, in scena al Teatro Bellini di Napoli dal 3 all’8 febbraio.
Se infatti all’Odissea di Omero va subito il pensiero leggendo, sin dal titolo, di Ulisse, Polifemo e dello sbarco nella terra dei Ciclopi, è dal poema epico come tradizionalmente conosciuto che bisogna allontanarsi per calarsi nella nuova dimensione tracciata dalla Dante nell’atto unico scritto immaginando lei stessa nei panni di una intervistatrice del gigante monocolo (Salvatore D’Onofrio), curiosa di conoscere, dalla sua stessa voce, come si siano realmente svolti i fatti.
E saranno proprio le prime parole pronunciate dal pauroso pastore carnivoro, a far evincere le iniziali differenze dal capolavoro omerico: a dispetto del siciliano che si immagina sia la lingua di Polifemo sulla base della presunta collocazione della sua terra alle pendici dell’Etna, infatti, si scopre, in realtà, che il ciclope parla napoletano («… io song sempre stato ’i rimpetto ai Campi Flegrei») e come lui lo stesso Nessuno (Carmine Maringola) che non esita con spavalderia a presentarsi come «un guitto, un gigione, un attore senza maschera, ’nu bugiardo!», ovvero, ancora una volta, con i tratti tipici con cui si è uso tratteggiare i napoletani.
Dunque, ecco la lingua essere innanzitutto la lente “altra” attraverso cui la drammaturga sceglie di reinterpretare il mito e creare quella feritoia all’interno della storia leggendaria, per scandagliare altri aspetti, toccare altri temi, parlare dell’oggi con lo scudo protettivo della finzione. Un esempio efficace, la digressione sul teatro quale occasione per indagare sulla diversità («Proprio perché voi siete diverso io sono venuta a parlarvi», afferma Io/Emma) inducendo all’esercizio dell’indignazione, così come accade con Carmelo Bene, ma anche pretesto per rispondere indirettamente a chi critica l’uso dei dialetti nei suoi spettacoli («Ad alcuni dà fastidio questa lingua maleducata e selvaggia») o anche per ragionare sulla Storia, imperfetta, ma «necessaria per assicurarci un posto nell’eternità».

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Deus ex machina che dall’interno, visibile sul proscenio accanto agli altri due protagonisti, dirige la riscrittura così come le azioni che i suoi personaggi intervistati devono compiere, dirimendo come un arbitro gli accesi scontri verbali tra il gigante e lo spavaldo eroe che ammonisce («Se io voglio lui può distruggerti. È grazie a me che tu appari, sono io che ti ho invocato, che ti riscrivo, che ti studio ed è grazie a me se tu oggi davanti al suo cospetto continui a vivere»), la regista/attrice – dalla credibilità naturale e perfetta nell’interpretare il doppio ruolo – è, pertanto, sul perpetuo crinale divisorio tra dentro e fuori la messinscena, che sviluppa l’intero suo lavoro. A dimostrarlo, evidenziarlo, due aspetti in particolare: l’uso di costumi di scena assolutamente anonimi, non in linea con l’epoca ripercorsa, e uguali per tutti e tre i personaggi, che immediatamente sembrano ammonire chi osserva sul fatto che si sta assistendo ad una alterazione della vicenda; l’adozione di una scenografia che, inizialmente costituita da tubi innocenti formanti una impalcatura spoglia, si modifica e arricchisce di quinte, pannelli fino al sipario rosso finale che da terra si alza a creare un palcoscenico nel palcoscenico ottimamente rendendo il voluto, forte, parallelismo tra decostruzione delle due figure omeriche da un lato e costruzione del nuovo assetto in cui collocarle per conferire loro nuovi contorni e nuove libertà: un teatro, per l’appunto.

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A completare la scena, ampia, molto di più di quanto sia realmente utilizzata dagli attori, e che imponente si staglia allo sguardo del pubblico, la danza – ora meccanica come quella di un manichino, ora fluida e ritmata come le onde del mare e la tela infinita di Penelope -, delle tre ballerine ancelle (Federica Aloisio Viola Carinci, Giusi Vicari) che aprono lo spettacolo e lo attraversano in vari momenti così alternando all’azione parlata il linguaggio altrettanto comunicativo del corpo; e la musica dal vivo di Serena Ganci che attraverso suoni elettronici, possenti, (forse talvolta poco amalgamati all’azione a cui fanno da sfondo) intesse – nello stile proprio del teatro della Dante – il canovaccio sonoro facendosi ulteriore pilastro dell’impianto drammaturgico di cui enfatizza lo stile pop.
La “versione di Polifermo” è compiuta, il macigno accanto alla caverna è stato spostato, e noi condotti per mano, seppur frastornati, abbiamo potuto sbirciare all’interno, conoscere l’Uomo e il Mostro, riscoprirne l’identità attraverso il gioco, la falsificazione in un apparente paradosso che forse, invece, è la soluzione, il metodo, sebbene molteplici siano ancora le possibile risposte e a trovarle, dopo Emma, siamo invitati ciascuno mentre di spalle, come lei, restiamo fermi e li osserviamo allontanarsi verso la prossima replica.

Ileana Bonadies

Teatro Bellini
Via Conte di Ruvo, 14 – Napoli
Contatti: botteghino@teatrobellini.it –  081.5499688 – www.teatrobellini.it

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