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Da mercoledì 11 a domenica 15 febbraio 2015, il cartellone del Teatro Nuovo di Napoli ospita Arturo Cirillo. Il regista racconta il “dramma sentimentale” di Tennessee Williams, con sensibilità e poesia, ricercando il senso dei ricordi e della memoria attraverso la verità e la finzione. 

Fonte foto ufficio stampa

Foto Laila Pozzo

Restano accese le luci in sala mentre sul palco fanno il loro ingresso gli attori e, nel chiacchiericcio di una platea distratta, prendono posto. Poi è il buio, quasi come fosse un illusorio e immaterico sipario, a segnare l’inizio dello spettacolo.
La scena unica, in cui si svolge l’intera vicenda è progettata,  nel disegno di Dario Gessati, in maniera chiara e lineare, con alcune intuizioni che sottolineano il simbolismo allusivo della regia. Non ci sono quinte, cosa che fa intravedere il retro del teatro nudo e crudo, così come si mostra solo agli addetti ai lavori e non al pubblico. Gli interpreti, quindi,  restano a vista degli spettatori, anche quando non devono recitar battute, in silenzio, in un angolo di quell’ideale recinto onirico in cui sono attanti.
L’artifizio è dichiarato: siamo difronte ad una rappresentazione e alla sua ciclica ripetitività.

Gli oggetti presenti, così come anche i costumi di Gianluca Falaschi, connotano un periodo storico più o meno preciso, a cavallo tra i ’70 e gli ’80, anni ben più lontani del 1944, in cui uscì il testo di Tennessee Williams; ma più che suggerire la cristallizzazione della narrazione in quell’epoca, essi paiono dire che la famiglia Wingfield può appartenere ad ogni tempo e ad ogni luogo.
I personaggi, assurti a tipi eterni nell’immutabilità dei loro caratteri, prima ancora che con le parole, s’imprimono nella mente del pubblico per le loro espressioni, i sorrisi e gli sguardi catturati dalle fotografie che vengono proiettate su scampoli di tela nera, sospesi sul palcoscenico. Sono i ricordi, i sogni e le verità di cui è gravido ogni essere umano, immagini eteree ed evanescenti che si accendono e si spengono durante lo svolgimento della storia.

Fonte foto Ufficio stampa

Foto Laila Pozzo

Il “dramma sentimentale” del premio Pulitzer statunitense ha come tema il tempo. È attraverso la memoria che le personalità da lui descritte riconoscono di esistere e continuano a persistere “sotto il manto delle illusioni”. L’analisi dei rapporti e delle connessioni che s’innescano tra il passato, il presente dell’hic et nunc e il futuro, corrisponde ad indagare la psicologia dei protagonisti ed individuare in essi forti e pregnanti simbologie.
Amanda Wingfield, una salace e potente Milvia Marigliano, è la vittima-carnefice per sé e per il suo nucleo familiare, alla deriva dopo l’abbandono del marito, presenza invisibile ed ingombrante nello sviluppo delle dinamiche della narrazione. La donna, chiusa in una ferrigna cecità mentale che la lega ad una giovinezza ormai sfiorita, impone compulsivamente, con parole e gesti, insensate regole ai figli, Laura e Tom. Il racconto dei suoi diciassette pretendenti e la rievocazione della sala da ballo dove incontrò per la prima volta quell’uomo che lei ancora ama e che ha determinato la sua sventura, si fanno insistenti proiezioni delle ambizioni che lei nutre nei confronti di Laura, della quale nega con tenacia il difetto fisico alla gamba che la rende zoppa. È così che una strobosfera, nascosta nell’armadio, diventa segno evidente dei  desideri distorti e riflessi di Amanda. I  mille specchi della sfera che irradiano la stanza di un vivido chiarore danno gioia, distrazione, vivacità, ad un’illuminazione, quasi sempre soffusa che, nelle intenzioni di Mario Loprevite, vuole sottolineare la natura a metà tra il realistico e il visionario della drammaturgia e della conduzione registica.
La madre è metafora di un passato che non riesce a morire e che rinvigorisce dinanzi la quasi abnegazione della gracile figura della ragazza, rassegnata alla sua sorte infelice di diversa, in quanto esclusa.
Monica Piseddu tratteggia il suo ruolo con grazia e solidità, è una Laura introversa, bloccata in un mondo tutto suo, fatto di canzoni (e qui la scelta di Luigi Tenco ha restituito una poetica malinconia alla scena quanto mai giusta) e animaletti di vetro da collezionare, ma è anche cosciente della sua condizione e di un cambiamento che non potrà esserci. Lo scrigno è il suo tesoro, in esso è contenuta la sua preziosissima collezione, immateriale e simbolica come l’unicorno che lei dà a Jim, Edoardo Ribatto nei panni di un apparentemente spavaldo e concreto sognatore americano, il quale non è altro che l’amore liceale di Laura, ora, invece, collega del fratello Tom. L’incontro, organizzato per trovar marito alla fanciulla, si rivela un fallimento. Jim, pur mostrandosi interessato a Laura e avendole ridato fiducia e speranza, brutalmente se le prende indietro, dopo un attimo, e lei, per tutta risposta, gli regala quel fragile e piccolissimo animale mitico, raro pezzo del suo zoo e astrazione di sé stessa, quasi come se fosse la ricompensa per quell’emozione che le ha donato e insieme la liberazione da un sogno irrealizzabile e da un ricordo.

Fonte foto Ufficio stampa

Foto Laila Pozzo

Intanto Amanda è disperata per l’inanità di tutti i suoi tentativi andati in fumo e Tom, infine, decide di andar via.
Quella che può apparire una disfatta ha però maturato lo sconvolgimento del triste status quo iniziale, che ha reso tutti consapevoli della realtà, a cui, fino ad allora, non avevano guardato in faccia.
Il gioco teatrale inscenato da Arturo Cirillo è adesso portato al suo compimento, in quell’altalenante contrasto tra verità e finzione che già il teatro ha insito in sé.
In Tom, interpretato dallo stesso Cirillo, questo meccanismo è manifesto sin da subito. L’artista, infatti, assolve al duplice incarico di narratore e protagonista della vicenda che racconta. Un ruolo che si fa addirittura triplice, nel momento in cui lui, fuori scena ma sempre a vista degli spettatori, accende le musiche, gestisce i suoni o sistema una lampada, adempiendo al lavoro fattivo di metteur en scène.
I toni affidati al personaggio sono quelli più irriverenti e sarcastici, ma straordinariamente veri soprattutto negli scontri diretti con la madre che generano grande ironia, complice in questo la traduzione di Gerardo Guerrieri. Tom che ha “una poetica predisposizione per i simboli” è la più coinvolgente e straniante delle figure rappresentate. Nel suo ardore, nel suo istinto alla lotta, nel rifiuto di una routine non voluta e nel ribellarsi ad essa, cercando rifugio nell’avventura del cinema, sta la sua forza, quella di un presente insoddisfatto che si affretta verso il futuro, di cui lui è prefigurazione.

A suggerire pensieri e sentimenti, il regista e attore campano ha portato avanti una direzione sottile, attenta, equilibrata che ha visto il ricorrere di un elemento, quello della proiezione, talvolta anche semplicemente sotteso nel linguaggio. Da esso è derivata l’importanza della luce sul palco, intesa come medium in cui far veicolare uomini-immagini, concepiti quali simulacri da scorgere, nell’incipit della pièce, e da abbagliare e assorbire nella potenza di un flusso generatore di visioni, nella conclusione.

Antonella D’Arco

Teatro Nuovo
Via Montecalvario, 16- Napoli
Info e prenotazioni: 081 49 762 67- botteghino@teatronuovonapoli.it
Orario-spettacoli: ore 21.00 (feriali); ore 18.30 (domenica)

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