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Al Teatro India di Roma l’impalpabile morsa della violenza psicologica nel rapporto di coppia per la regia di Saverio La Ruina.

Fonte foto web

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Sotto le massicce capriate lignee di una fabbrica dismessa, un uomo e una donna si fronteggiano per settanta minuti ininterrotti, in un dialogo serrato come una partita da ping-pong, mentre il pubblico, impotente, assiste al crescendo di una violenza maschile “pulviscolare”, fatta non di botte ma di sottili e martellanti mortificazioni psicologiche.
Polvere, pièce prodotta dalla compagnia Scena Verticale, fondata a Castrovillari nel 1992 da Dario De Luca e Saverio La Ruina (che è anche regista e drammaturgo dell’opera), è stata sui palchi del Teatro India di Roma, dal 10 al 15 febbraio scorso, nel suggestivo scenario della cittadella dell’ex fabbrica Mira Lanza, sulle sponde del Tevere.

A fare da sfondo alla rappresentazione, la cui visione il regista accompagna con queste dichiarazioni: “Sono cresciuto nei vicoli di Castrovillari, dove c’era il mito della forza, dove la gerarchia si stabiliva in base a quella. E se penso a quante volte ho pianto davanti a una donna, mi dico forse solo una volta. Hai una gabbia intorno che ti rende incapace di gestire la tua fragilità, perché è come se dovessi sempre riconquistare le posizioni”, è uno spazio illuminato con luce fissa ed arredato da un tavolo e due sedie verde acqua su cui poggiano una bottiglia trasparente, un libro e uno specchio. Nelle prime scene c’è anche un dipinto con una figura femminile a tinte fucsia, senza lineamenti.
Gli attori non rivolgono nemmeno uno sguardo alla platea, anzi, a volte le danno le spalle, come se non ci fosse. Perché questa scelta registica? Viene da pensare che sia dovuta ad un’esigenza di realismo, al bisogno di mettere sul palco ciò che verosimilmente avviene in un interno domestico. È più probabile, però, che risponda al desiderio di rappresentare il soffocante rapporto a due che si realizza quando “gli altri”, il pubblico per l’appunto, vengono intenzionalmente tenuti fuori da chi abusa, affinché l’altro non prenda coscienza del baratro in cui sta precipitando e non chieda aiuto.  Non a caso, quando la protagonista propone all’uomo di discutere dei loro problemi con altri, si sente dire sempre un lapidario e irremovibile: “Bastiamo io e te”, che chiude a chiave la porta della libertà, generando un effetto contrario a quello che letteralmente potrebbe significare (un amore completo).
Ma il pubblico non resta indifferente. A catturare l’attenzione sono pochi, incisivi particolari che ben introducono nel tunnel dell’abuso di potere nella coppia: i toni della voce dei due interpreti, l’abbigliamento di lei che si modifica poco alla volta, i movimenti della coppia sul palco (lei si muove sinuosa, lui scattante e predatorio) e la cortina di suono delle dita di lui che tamburellano forsennatamente sulla sedia e sul tavolo prima degli attacchi verbali contro di lei, quasi come il segnale che preannuncia l’inizio della battaglia contro una inerme.

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La protagonista (Jo Lattari), dalla voce ferma e dolce e dalla gestualità calda, indossa all’inizio una lunga maglia gialla, una collana verde brillante e porta i capelli mossi sciolti sulle spalle e raccolti ai lati; l’uomo (Saverio La Ruina) dall’accento marcatamente calabrese, i gesti ponderati e calcolati, porta una camicia marroncina aperta su una maglia scura, quasi a rimarcare visivamente le emozioni che i loro animi sprigionano: lei piena di gioia di vivere, lui opaco e pronto a spegnere la luce di lei. I due (che non hanno nomi, archetipo del genere femminile e maschile), si sono appena conosciuti ed egli già inizia a farle delle osservazioni: non gli piace che lei si tocchi il collo in pubblico perché gli pare un gesto civettuolo; non gli piace quel dipinto che lei ha in casa sua con l’immagine di donna, perché ai suoi occhi è provocatorio dunque deve essere tolto; non gli piace il tono della voce di lei quando si rivolge a lui, gli suona offensivo, deve essere più morbido e, poi, deve chiamarlo “amore”. A queste osservazioni, la donna resta sorpresa, non erano certo queste le sue intenzioni, ma lo asseconda. E così, a mano a mano, si controlla nei gesti e nella voce, si spoglia del suo quadro, dono di un’amica, castiga i capelli in uno chignon, si toglie la collana verde brillante, e si copre con un maglione di cotone grezzo che le annienta le forme, lasciando chiuso sul tavolo il libro che leggeva nelle prime scene. Il suo tempo in casa viene dedicato a preparare la cucina per lui, a parlare a telefono con lui per descrivergli, con minuzia ossessiva di particolari inutili, sempre le stesse vicende: l’incontro con l’amico Marco, il modo in cui l’aveva salutato, che vestito indossava quando l’aveva salutato e, soprattutto, per raccontargli di quell’evento che aveva stravolto la sua vita, lo stupro subìto una notte mentre, scioccata per la morte del padre, si aggirava sotto al portone della casa di un’amica.

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Nel descrivere continuamente i particolari delle sue precedenti esperienze con gli uomini, sempre gli stessi, la donna perde fiducia in sé, smette di sorridere, di sognare, si vede spogliata senza ragione della sua intimità, scrutata da un inquisitore per il quale c’è solo condanna.
“Qui c’è scritto fragile” lo avverte lei all’inizio, ricordandogli l’abuso subìto e lui, con fare studiato e in apparenza comprensivo, le risponde: “Voglio entrare nella tua modalità. Imparerò da te”. Salvo poi umiliarla urlandole: “Ma dove ti avvii con questo pacco, chi vuoi che ti prenda?”. Nella protagonista, tuttavia, non sembra del tutto assopito l’amor proprio e la scena finale lascia intuire una sua possibilità di riscatto.

Lo spaccato di vita che il drammaturgo ci restituisce, lungi dall’essere circoscritto ad un caso isolato, assume valore universale. A La Ruina va attribuito il merito di essersi saputo calare nella psicologia femminile, riuscendo a decifrare, con inaudita efficacia, senza isterismi né moralismi, i codici della violenza psicologica domestica che, poco affrontata dalle cronache dei quotidiani, è più difficile da riconoscere e, perciò, da sradicare. “Polvere” ben può allora rappresentare un monito e una possibile mano tesa per chi, più o meno consapevolmente, è dentro a questa violenza più subdola di quella fisica, e desidera uscirvi.

Lo spettacolo, che ha debuttato in prima nazionale il 20 gennaio scorso al Teatro Elfo Puccini di Milano, è stato preceduto da altri interessanti lavori di Saverio La Ruina: Dissonorata e La borto, tutti dedicati al tema di donne del Mezzogiorno, offese ma orgogliose.

Elvira Sessa

Teatro India 
Lungotevere Vittorio Gassman (già lungotevere dei Papareschi), 1  – Roma
Contatti:  06 684 00 03 11 / 14 – http://www.teatrodiroma.net/

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