Buonanotte, mamma
Il testo premio Pulitzer di Marsha Norman in scena al Teatro Belli di Roma nel limpido e drammatico ritratto di famiglia in un interno diretto da Ciro Scalera.
Nel 1983 ‘night, Mother, nato dalla penna di Marsha Norman, lasciava attoniti i lettori americani sciogliendo in un perfetto e pacato salotto borghese il dramma di una figlia che, consapevolmente, esprime alla madre la volontà di suicidarsi. E sente la necessità di farlo ora. Ora che ha trovato la serenità, nonostante il divorzio, un figlio di dubbia moralità, e l’epilessia, che da un anno non si presenta violenta per strapparla a intermittenza dalla quotidianità.
Sulla scena del Teatro Belli, fino al 22 febbraio, la morsa mentale ed emotiva che stritola cuore e coscienza di madre e figlia nella perdita e dell’abbandono reciproco, prende forma in uno spazio angusto (pensato da Massimo Marafante) diviso tra cucina e soggiorno, delimitato da pareti con tappezzerie demodé e un sovraccarico arredo anni Sessanta: simulacri dell’immobilità bigotta e sbiadita di un interno bloccato tra falsi moralismi e intime ipocrisie, regole e ruoli sociali scricchiolanti e sfoghi di voci liberati al soffocante silenzio.
Un microcosmo al riparo dal mondo, nel quale il rapporto genitore-figlio è ormai l’unico tollerato e voluto; l’unico che, poco a poco, ha condotto le due donne all’essere l’una l’assuefatto riflesso dell’altra, sua sola ragione di vita. In questa logorante nuvola di realtà isolata, la composta e incisiva regia di Ciro Scalera adagia sulla coppia Thelma (Elisabetta De Vito) – Jessie (Sarah Biacchi) un velo di preservata e autodistruttiva gelosia proveniente da un legame rigido e morboso di dipendenza al contrario, dove è la madre, adagiata nel cardigan, gonna e giro di perle, a dar voce ai capricci infantili, e dove è la figlia, con fare da paranoica e servile padrona di casa, la cui euforia si muove nella comodità di pantaloni maschili e ampio maglione, ad accudirla, a rimproverarla, a ferirla.
Tra loro un’interpretazione capace di coniugare il dinamismo impulsivo di parole, gesti e sguardi con perspicacia e sobrietà, dando vita a inattese complicità e impetuosi j’accuse, a carezze di assurda rassegnazione, a dichiarazioni di egoistico affetto pronunciate nella quieta volontà d’interrompere ciò che di più intimo possiede una persona, la propria vita, ormai smarrita, lontana, sorda, e al conseguente, inevitabile e lacerante senso di colpa di chi quella vita l’ha messa al mondo e per misterioso istinto non può lasciarla andare.
De Vito e Biacchi trasformano il palcoscenico in un privilegiato terreno di sofisticato duello dove il primordiale legame dell’essere umano diventa un cordone mentale che stringe entrambe in un vortice di tacita disperazione, dove piegare il bucato, spostare i mobili, preparare la cioccolata, hanno il pungente significato di banalità ostentate, pretesti futili, parole spente piene di sottili e trasparenti tentativi di rallentare l’orrore di quell’istante assurdo, indicibile, quello dell’addio, dello sparo, del buio.
Nicole Jallin
Teatro Belli
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