Buon compleanno Teatro di Sacco!
Ripercorrendone la storia, i progetti e i successi, ecco come è nata la realtà teatrale perugina fondata da Roberto Biselli, che oggi compie trent’anni. L’intervista ai protagonisti.
Teatro di Sacco, una delle realtà artistiche teatrali più importanti della scena del territorio umbro, compie oggi 30 anni. A Perugia impossibile non conoscerla ed apprezzarla per la passione e l’attenzione che mette in ogni suo piccolo o grande passo.
Quattro le attuali colonne portanti che noi di QuartaParete abbiamo intervistato per l’occasione: Roberto Biselli (attore, regista, fondatore e direttore artistico), Maurizio Modesti (attore e sceneggiatore), Samuele Chiovoloni (aiuto regia, tecnico luci e curatore di laboratori), Biancamaria Cola (che oltre le relazioni pubbliche cura l’organizzazione di questa macchina in continuo progresso e che purtroppo non ci ha potuto raggiungere). Li Incontriamo nella storica Sala Cutu, piccolo spazio teatrale nel cuore del capoluogo umbro e loro base operativa. Cerchiamo di ripercorrere insieme la storia dell’associazione culturale:
Roberto Biselli come nasce la famiglia Teatro di Sacco?
In realtà Teatro di Sacco era un progetto informale di cui già parlavo nel 1977 con un gruppo di amici del settore teatrale ma si sviluppa al mio ritorno a Perugia (NdR. Biselli fino ad allora era a Roma per proseguire la sua carriera di attore) e nasce il 28 febbraio 1985, data in cui abbiamo debuttato con il nostro primo spettacolo, Il sogno di Simon che curiosamente ci ritroviamo ora a rimettere in scena con l’Università della terza età.
Considerando che in quel momento lei era nel pieno della sua carriera di attore, qual è stata l’esigenza che l’ha portata a dare vita a questo progetto?
Dunque, c’è da dire che io fondamentalmente sono entrato nel teatro dalla “porta principale” perché arrivavo da una scuola prestigiosa che mi ha portato subito a fare degli spettacoli con dei registi importanti, in un momento in cui il teatro aveva molte risorse (anche economiche). Ad esempio, quando sono entrato al Teatro di Roma, che è l’ultima compagnia con cui ho lavorato, abbiamo fatto circa trecento date e quasi un anno e mezzo di tournée, che è un dato di rilievo. Tutto, pertanto, andava benissimo ma il problema per me era il “senso”. Avevo perduto il senso di quello che facevo: io vengo da una generazione che si domandava il perché (il senso, appunto) della propria esistenza anche attraverso una cognizione ideologica politica, sociale ed umana e, finito all’improvviso nel mondo dello spettacolo, mi sono ritrovato a vivere questa esperienza in una sorta di “apnea”, come se stessi attraversando un’esperienza che non mi apparteneva, senza respirare, smettendo di pensare. Consideriamo, tra l’altro, che il passaggio, alla fine degli anni Settanta, dalla provincia di Perugia ad una realtà come quella di Roma, alla scuola di Gassman e Albertazzi, con un entourage che ha un livello di internazionalità e di concentrazione di sé completamente diverso, è stato per me un salto veramente forte, di grande impatto sia dal punto di vista dello spettacolo che della cultura. Per certi versi è stata dunque anche una grande “sofferenza” che mi ha portato, pur partecipando a spettacoli importanti e interpretando ruoli da protagonista, a non credere in quello che facevo.
Potremmo dire che viveva l’esperienza come un automa…
Si, esatto. Il grande rischio degli attori, ieri più di oggi, era che entrando in quel meccanismo ci si ritrovava a non vivere più quello che c’era intorno perché si era troppo concentrati sulle tournée, sul dormire abbastanza per essere riposati al momento di entrare in scena, sul fare attenzione all’alimentazione, cercare altre produzioni, frequentare le persone giuste nell’ambiente. Tutto diventava una routine che ti portava ad essere avulsi dalla realtà. Roma, in quegli anni, ad esempio, era “pericolosa”, era il periodo del sequestro Moro, ma questo essere presi dalla carriera portava a vivere questa realtà quotidiana “da lontano”, con un certo senso di inconsapevolezza. Preso coscienza di ciò, decisi di tornare a Perugia e contattare un gruppo di amici-attori che avevano le mie stesse difficoltà e così creare Teatro di Sacco.
Mi scusi, parliamo di difficoltà emotive, perché quello era un periodo “d’oro” per il teatro e l’arte in generale e di lavoro ce n’era…
Si, difficoltà emotive che mi hanno portato a scegliere questa nuova strada. Primo passo portare in scena il primo spettacolo. Il gruppo, ovviamente, a distanza di anni, per esigenze diverse, si sgretolò ma io ero nel pieno di quella che si può definire la mia “voglia di capire” e ho continuato la mia ricerca, e grazie al sostegno con l’allora Assessore alla Cultura, Roberto Abbondanza, potei rivalutare un luogo che era stato dimenticato: il Fuseum, galleria d’arte sita in Perugia che si avvale di spazi espositivi all’interno di un museo e di una location a cielo aperto dove tuttora vengono ospitate, oltre a mostre, anche delle performance itineranti e concerti musicali . Lo scelsi per portare in scena una trasposizione di Alice. Ne uscì un interessante spettacolo itinerante che vedeva protagonisti dei bambini ai quali, allora, tenevo un laboratorio teatrale. Il successo fu tale che ci venne chiesto di riproporlo l’anno seguente. Questa esperienza fu la mia svolta: capii cosa stavo cercando, scoprii la dimensione umana che si celava nel mio lavoro e cominciai il percorso che portò Teatro di Sacco a divenire una realtà territoriale molto importante.
In quel momento avevate anche le Istituzioni al vostro fianco…
Si, era un periodo in cui le amministrazioni comunali avevano l’opportunità di investire economicamente sulla cultura. E, grazie anche a ciò, io sono stato il primo a lanciare l’idea (e a metterla in atto) di un laboratorio teatrale all’interno delle scuole superiori. Un’esperienza unica, secondo me, perché non solo incentrata sulla recitazione, ma soprattutto volta ad utilizzare il teatro come strumento di crescita culturale per i ragazzi e, per me, in qualità di individuo.
A parte questi aiuti da parte delle Istituzioni di allora, voi avete sempre camminato sulle vostre gambe, fermi sui vostri principi, anche andando controcorrente. Scelte che vi hanno portato a pagare un costo? E se così fosse, a cosa avete dovuto rinunciare?
Sinceramente, l’unico rimpianto che posso avere è di non avere avuto alcune opportunità al momento giusto, ad esempio quando mi sono trovato ad aver bisogno di entrare in un meccanismo nazionale, allora, non esisteva nulla per gli under 35. Quando, negli anni seguenti, la soglia di età di accesso ai bandi è stata abbassata, ero paradossalmente nella condizione di essere troppo “vecchio” per poter fare domanda. Come me, purtroppo, tanti altri. È stata una questione logica di tempistica.
Un compleanno come quello dei 30 anni è un momento in cui ci si dovrebbe sentire“adulti”. Questa maturità cosa porterà a Teatro di Sacco? Nuove sperimentazioni, nuove ricerche o che altro?
Nuove ricerche indubbiamente. Il punto principale è per noi quello di avere un contatto, il più ampio possibile, con il pubblico. Un pubblico, speriamo, differenziato, che abbia voglia di vedere cose interessanti, di nicchia e non, composto anche da bambini. Il teatro, per me, dovrebbe avere la capacità di stratificarsi all’interno del mondo della realtà e riuscire ad essere qualcosa di estremamente significativo e di qualità.
I tempi dei grandi numeri, con la morte di Luca Ronconi, credo siano finiti, lui era l’unico che riusciva ancora a reggere e a raccogliere intorno a sé mega progetti. Credo che il nostro compito futuro sia quello di trovare operazioni interessanti che sappiano raccogliere pubblici interessati, interessanti e interessabili.
Desideri e speranze racchiusi in trenta anni. Quanti ne avete realizzati e quanti sono rimasti nel cassetto?
In realtà ogni anno scopriamo qualcosa di nuovo. Ad esempio, importantissimo, si è rilevato il rapporto costruito con i laboratori che promuoviamo (tra cui lettura espressiva, dizione, teatro adulti, bambini e Unitre . l’Università della terza età) che mi ha portato ad attuare progetti particolari e performance che sono state realizzate in date “speciali” come ad esempio Ubunto per la Giornata della Memoria. Unire tante persone, non sempre legate o che vivono all’interno dell’ambiente teatrale, è un momento di grande realizzazione per me. Per quanto attiene le mancanze, torniamo al discorso fatto prima in tema di carenza di circuiti che ha compromesso lo scambio di opportunità.
Nel 1995 arriva uno spazio fondamentale che sarà la base di Teatro di Sacco ovvero la Sala Cutu. Come ottenete la gestione del teatro?
La Sala Cutu ci viene assegnata dal Comune di Perugia come spazio di lavoro nel 1987 ma in realtà era un ambiente spartano ricavato in origine nel centro storico della città per fare delle assemblee di quartiere. Pazientemente, anno dopo anno, abbiamo fatto dei lavori fino a renderlo lo spazio confortevole che è attualmente. Dopo la chiusura del Teatro del Mercato, inoltre, è il primo spazio teatrale che si colloca all’interno dell’acropoli perugina.
Uno spazio frequentato da giovani attori a cui avete dato un’opportunità e che nel tempo sono divenuti molto noti al pubblico…
Ascanio Celestini, Filippo Timi, Babilonia Teatri, Leonardo Capuano, e molti altri, tutte persone che ancora non avevano un background e che da noi hanno trovato ospitalità.
La Stagione di quest’anno, “Indizi”, è impegnativa. Come siete riusciti ad affrontarla economicamente?
Da quest’anno abbiamo un partner importantissimo senza cui probabilmente la stagione non avrebbe avuto luogo, la Banca Mediolanum, che ha deciso di investire molto sulla cultura locale. Ed è un passo eccezionale. Credo sia la prima volta che una compagnia privata riesce ad avere uno sponsorizzazione privata di rilievo. Vogliamo anche sottolineare che gli artisti che rientrano nella rassegna ci sono venuti incontro nelle soluzioni e senza eccedere con le richieste. Ne è nata così una bella stagione e un ottimo rapporto di collaborazione.
Vorremmo chiedere ora a Maurizio Modesti quando e come si sviluppa la sua entrata in Teatro di Sacco?
Io arrivo a Teatro di Sacco nel 2005, dopo alcuni trascorsi alla Rai. Inizio come attore per Biselli in un progetto da portare in scena sulle sponde del Lago Trasimeno. Da qui lo scambio di pareri ed idee, probabilmente in un momento in cui c’era aria di cambiamenti in corso, che ci hanno indotto a confrontarci e a valutare formule diverse, contatti diversi. Era un periodo in cui Teatro di Sacco aveva bisogno di innovazione.
E cosa ne è uscito?
Ne è uscita, secondo noi, una bella collaborazione che non ha dato solo frutti dal punto di vista del marketing ma che ha prodotto anche un lavoro di tipo artistico, tra cui molti progetti interessanti come “Crisalide”, nel 2014: un percorso itinerante molto originale e degno di nota nella suggestiva location dell’ex carcere maschile di Piazza Partigiani .
Durante questo percorso arriva anche il giovane Samuele Chiovoloni, già fruitore dei laboratori di Biselli, ma notato da Modesti per impegno e capacità. Samuele, dunque, cosa porta a Teatro di Sacco e come ci si rapporta?
Io mi rapporto con l’associazione in modo molto “plastico”. Conosco Roberto Biselli dagli anni del Liceo Classico, lo intervisto, in seguito, per una emittente radio locale e poi seguo i suoi laboratori. Da qui metto tutta la mia umiltà per formarmi con Teatro di Sacco riconoscendo la fortuna di aver incrociato la sua strada. Come vari ragazzi della mia età non avevo molti adulti intorno a me con i quali confrontarmi e dai quali imparare con rispetto e dai quali attendere quel qualcosa che effettivamente arriva, poi, con Roberto e Maurizio. Con loro scopro le attenzioni che il palco merita e la disciplina del teatro – a mio parere davvero formativa per chiunque gli si avvicini – e inseguo finalmente la mia strada imparando a conoscere e apprezzare la storia di un’entità come Teatro di Sacco e valorizzando la mia attitudine per i laboratori per bambini che porto avanti in un progetto a largo spettro in molte scuole del comune umbro. In preventivo, la volontà di creare una stagione, il prossimo anno, con una rassegna di eventi per l’infanzia valorizzando magari compagnie locali.
Molte le iniziative e grande lo spirito e la passione con cui vi mettete in gioco. Avete anche delle vostre produzioni. L’ultima ha debuttato da poco proprio alla Sala Cutu…
Due le nostre produzioni degli due ultimi anni: Pachidermi di Viviana Salvati e Solo di sabato di Francesca Angeli (NdR. qui Biselli ci interrompe per sottolineare l’importanza di scegliere autrici italiane) che è andato in scena lo scorso 5 febbraio in prima nazionale. Ma ci occupiamo anche, oltre tutto il resto, di corsi di formazione per il pubblico. Abbiamo pensato di promuovere “Effetti Collaterali” cinque incontri con gli spettatori che hanno avuto grande successo e che li hanno visto protagonisti di un confronto con gli “addetti ai lavori”. L’ultimo era a cura di Piergiorgio Giacchè (NdR. insegnante di Antropologia del teatro e dello spettacolo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia) che si è regalato al pubblico donando una coinvolgente esperienza a tutti i presenti.
Torniamo un attimo a parlare con Modesti che, dell’ultima produzione, è anche il protagonista sul palco con Claudia Campagnola. Quanto è importante questo ultimo progetto per voi?
Non dico che è un passaggio fondamentale ma quasi perché determina un fattore importante: competere e confrontarsi con una tipologia di spettacolo, la commedia, troppo spesso relegata in un angolo e per noi non abituale. Credo sia un’operazione molto ben riuscita perché Roberto, in veste di regista, è stato in grado di dare un taglio molto particolare a questo genere così permettendoci di ricercare qualcosa di nuovo in cui cimentarci rispetto al genere teatrale contemporaneo finora indagato.
Un tentativo ben riuscito mi sembra, considerando il successo di pubblico e critica che avete riscosso tra Perugia e Roma dove siete andati in scena con questa divertente commedia in agrodolce che lascia qualcosa che va oltre la risata…
Per rispondere, prendo in prestito una frase di una persona che è venuta a Roma a vedere lo spettacolo e, al termine, ci ha detto “Si può riportare veramente il pubblico a teatro e con esso si può riformare un rapporto”. Aggiungo che, secondo me, il pubblico è stato “massacrato” negli ultimi quaranta anni da un teatro autoreferenziale che ha obbligato gli spettatori a chiedersi “Perché io devo andare a teatro?”. Operazioni come Solo di sabato possono, invece, riallacciare il suddetto rapporto con il pubblico perché lo convince che si può andare in un teatro, si può anche ridere, ma si può ritrovare un qualcosa che dà anche da riflettere.
Per chiudere, torniamo a oggi 28 febbraio: come si svolgeranno i festeggiamenti?
Il compleanno verrà in realtà festeggiato durante la stagione estiva. Vorremmo offrire alla città un’esperienza particolare attraverso la quale ripercorrere insieme la nostra storia. Non con uno spettacolo ma con un grande incontro, magari anche con una mostra itinerante di tutto ciò che ci rappresenta, a cui saranno invitati cittadini e operatori di teatro, e le sorprese non mancheranno.
Francesca Cecchini