“La Paranza-Il Miracolo”
Un pellegrinaggio laico affidato alla polifonia e alla parola teatrale si fa drammaturgia al Teatro India di Roma per raccontare gli “aventi diritto” che si trasformano di necessità in “richiedenti miracoli”.
Un’anziana che ha perso la salute, un uomo che ha perso il lavoro, una donna di mezza età che ha perso la casa per un terremoto e una giovane adulta che fa un lavoro “perdente”.
Sono questi i protagonisti de “La Paranza-Il Miracolo” (vincitore del Festival “I Teatri del Sacro” 2013), andato in scena al Teatro India di Roma dal 10 al 15 marzo scorso con la regia di Clara Gebbia ed Enrico Roccaforte, drammaturgia di Katia Ippaso.
Sono quattro, il numero necessario per reggere sulle spalle un immaginario carro votivo, come fanno le squadre di fedeli – dette appunto “paranze”- che il lunedì in albis, dai quartieri di Napoli e provincia, si recano al santuario della Madonna dell’Arco. Per chiedere “il miracolo”.
I personaggi si muovono in una grande città d’Italia dei nostri giorni; hanno lottato nella loro vita, ciascuno secondo la propria misura, confidando nel proprio impegno. Poi, un bel giorno, per ragioni diverse, sono finiti per strada. E così da “aventi diritto” (alla salute, al lavoro, alla casa) si sono trasformati in “questuanti di miracoli”. “Non stiamo chiedendo un miracolo!” gridano all’apertura del sipario e sembra che vogliano dire: desideriamo una vita dignitosa, mica la luna”.
All’inizio, ognuno di essi è inchiodato nella sua solitudine, ripiegato nella rabbiosa disperazione per una condizione non scelta, come viene ben espresso dai nevrotici monologhi che si sovrappongono l’uno all’altro e dai rifugi di fortuna – rappresentati da grandi scatole cubiche in metallo – dove ognuno di loro si rintana in preda a pensieri ossessivi. Così, c’è la rigogliosa cantante di talento (interpretata da una energica Germana Mastropasqua) che “vende” la sua squillante voce ma ne ricava troppo poco per vivere e se ne va randagia cantando con impeto la sua sventura; c’è la terremotata dall’elegante tailleur (Alessandra Roca) che, nel ricordo della sua bella casa, si rannicchia nella sua auto dove ha per unica interlocutrice una piantina chiamata Felicetta; c’è l’anziana malata dai calzini bucati e i capelli scompigliati (Nené Barini, che subito conquista la simpatia del pubblico) che si nutre di pillole, desidera una clinica con giardino e si fa ricoverare in ospedale per avere compagnia; infine, c’è l’uomo “produttivo” (un sanguigno Filippo Luna), un ex capo d’azienda cinico e rampante poi licenziato, furibondo per non riuscire più a mantenere il figlio.
I quattro naufraghi della vita si vedono costretti a condividere il peso di un carro votivo (composto dai cubi di metallo dove viveva ognuno di loro) e, inconsapevolmente, grazie a questa condivisione, si riscattano: escono dalla prigione esistenziale e realizzano il miracolo della solidarietà per cui “si parte insieme, si torna insieme”.
Come spiegano Gebbia e Roccaforte, gli attori sul palco «danno vita ad una parabola pop mettendo in scena un miracolo senza Dio. Pur non cercandolo, recuperano il diritto fondamentale all’associazione che porta solidarietà tra gli individui; questa, perdendo i suoi connotati religiosi, per noi diviene “l’utopia necessaria degli esclusi” dentro uno stato laico».
In questo riscatto sociale-umano, la componente musicale è determinante: lungo il pellegrinaggio laico, i cupi lamenti solitari si accordano in un afflato polifonico, con un crescendo di ritmo dell’azione e di tensione emotiva. Le sonorità intense e suggestive (le composizioni sono realizzate e dirette da Antonella Talamonti) dei canoni a cappella, riecheggiano ora i solenni canti gregoriani, ora una arcaica ritualità popolare, ora i gospel che vibrano di drammaticità e speranza. Emerge «la ricerca di un percorso drammaturgico affidato in ugual misura alla parola teatrale e a quella musicale, in tutte le sfumature che vanno dal sussurro al canto», come sottolineato nelle note di regia.
L’espressività delle voci è enfatizzata dalle accurate scelte cromatiche dell’allestimento scenico: il fucsia e il rosso, che dominano la scenografia e i costumi, valorizzano il pathos.
Non mancano momenti di umorismo e ironia che, con un sapiente accorgimento drammaturgico, stemperano e alleggeriscono il climax, come quello dell’allucinazione collettiva in cui il quartetto dell’uomo ricco, buono e bello (il politico di turno?) al quale il quartetto implora: “ti faccio il voto, ti do il voto”.
Lo spettacolo, coprodotto dal Teatro Biondo Stabile di Palermo e dal Teatro di Roma in collaborazione con la compagnia Teatro Iaia – Umane Risorse, apre la rassegna “Tra Cielo e Terra. Sacro e profano nel teatro presente”, un progetto che il Teatro di Roma, insieme con I Teatri del Sacro e Federgat, dedica alla spiritualità e alle domande fondamentali della vita e che si chiuderà, sempre al Teatro India, con l’opera “Clarel”di Herman Melville per la regia di Valter Malosti (27-29 marzo).
Elvira Sessa
Teatro India
Lungotevere Gassman n. 1 – Roma
Contatti: 06 684 00 03 11/14 – http://www.teatrodiroma.net/