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Al Nuovo Teatro Sanità di Napoli, dopo il debutto francese, la prima italiana del testo scritto diretto e interpretato da Tino Caspanello insieme con la compagnia messinese Teatro Pubblico Incanto, per indagare la guerra intima e interiore di ciascun essere umano e chiedersi per quanto tempo ancora si avrà il coraggio e la dignità di lottare.

Fonte foto Ufficio stampa

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“La rivoluzione non la si fa a teatro o col teatro: essa non è un’avventura romantica come da tante parti si crede oggi. Essa è un’impresa diuturna, giorno per giorno; e la trasformazione dal basso della società che essa persegue porterà al teatro nuove masse di spettatori che oggi ne sono lontani. Il teatro che vuole essere all’altezza della nostra epoca di rivoluzione e di progresso scientifico deve avere come primo compito di mostrare, divertendo, che il mondo, che la società sono trasformabili.”
Così si discorreva al Piccolo Teatro di Milano. Era il 1969. Così se ne può discutere ancora, se si presenta un’occasione d’eccezione, quale la messinscena dell’ultimo lavoro di Tino Caspanello, una delle penne più interessanti della drammaturgia contemporanea, che, assieme a Cinzia Muscolino, Tino Calabrò e Francesco Biolchini, ritorna a Napoli, sul palcoscenico del Nuovo Teatro Sanità, nei primi giorni di primavera, con Quadri di una rivoluzione. Sarà un caso o un segno? La primavera porta con sé ventate nuove: umori di scontento che si tramutano in energie rinnovate. Avemmo il piacere di conoscere questo bel tratto della drammaturgia contemporanea siciliana, la scorsa stagione, nell’ambito della rassegna Il Teatro cerca casa, con Mari, un testo rivelazione per stesura e contenuto, che in un raccordo magico tra voce e poesia stregò gli astanti, trascinandoli con la musicalità della loro lingua di scena in un mare, le cui rive cancellavano i confini.
La scrittura sapiente e tersa del drammaturgo Tino Caspanello ritorna potente, per mostrare altre frontiere. Qui i limiti si sovrappongono come scatole cinesi: ad ogni cornice-confine ne sussegue una più grande. Cornici di quadri, di scena, di musica. Confini di stadi-ghetto, perimetri di menti. Tre uomini senza nome, senza identità, si identificano con un numero composto da tre cifre: 845, 137, 892. Rinchiusi in uno stadio in disuso, tra una porta dissestata ed una panchina, sulla quale, ignari, forse, qualcuno da fuori li ha collocati, mettendoli fuori gioco. La panchina è un segno pregnante per il dipanare della scena: è una didascalia che sfoglia titoli di opere d’arte: ogni quadro d’autore, emblematico per la sua portata artistica innovativa, delimita un evento scenico che termina con il buio, come per voltar pagina. Quella di Caspanello è una rivoluzione di pochi, “siamo rimasti in tre”, è una rivoluzione in sordina, quasi una stilizzazione di un qualsiasi sovvertimento, socialmente rilevante. Qui ad agire non sono “i rivoluzionari” ma è l’idea che ciascuno dei tre uomini immagina di poter essere o diventare, secondo una propria logica. Conoscono perfettamente il regolamento e il registro linguistico rivoluzionario, eppure non sono strateghi, non sanno macellare animali, né nemici. Ma tra i tre, 845 è l’esperto di animali, in quanto ha ucciso un gatto. Tocca a lui, quindi, uscire dallo stadio per rubare una mucca. Ma, invece, preleva una “vacca” vestita Dior, una Salomè, che come zizzania si insinua, oltrepassa i confini, per controllare la “terra di rivolta”. La rivoluzione, non sempre deve essere un atto di sommossa sociale sensazionale, a volte basta solo prelevare una bestia o un’antenna a chi ruba il diritto alla sana dialettica dell’informazione. Il dipinto La Colazione sull’erba, decreta l’avvelenamento subdolo di chi ha “ingoiato” il boccone letale: 845, con la sua camicia verde, come il liquido miracoloso che gli iniettano per sanarlo o per intossicarlo, richiama nuove tragedie contemporanee, per le quali il colore verde ha perso il suo significato di speranza. È l’icona universale della Pietà a fotografare la sua morte indotta e assistita da finte braccia amorevoli. E sul finale, in proscenio, l’infida Mata Hari, legandosi mani e piedi, come vittima sacrificale è pronta all’eutanasia, in nome di uno pseudo-amore, di un ideale, o solo di un ingranaggio folle e perverso.

Fonte foto Ufficio stampa

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Quadri di una rivoluzione si rivela a suo modo una “machine a tuer”, che in una logica disastrosa del sospetto tenta l’eliminazione di chi non si conforma ad una sistema che impone meccanismi contorti, subiti da molti e condivisi da pochi. La denominazione delle scene con i titoli delle opere d’arte ci riporta alla “letterarizzazione del teatro” di brechtiana memoria, per cui il formulato si sostituisce al figurato, esercitando così il pubblico ad una visione complessa, dove però ”non è lui che pensa alla cosa, ma è la cosa che lo fa pensare”. Il titolo diventa così un altro “limite” da superare. Confine che quasi incornicia il pensiero dello spettatore, che tacitamente attende che gli sia esplicitato ciò che ha letto, per scegliere e decidere se stare dentro o varcare quel confine. Forma epica e drammatica non conoscono separazione: Tino Caspanello, con vera maestria, le unisce entrambe, conferendo a ciascuna ampio respiro: l’azione non segue il dire ma l’una è nota esplicativa dell’altro in nome di un testo che si ascolta e si vede. Il chiaro taglio registico e l’intenso lavoro attoriale mostrano professionalità mature e consapevolezza della materia trattata, definendo messinscene particolari e complete, per intelligenza e vivida compattezza. Una particolare cura si ravvisa per il linguaggio impiegato che, come afferma Dario Tommaselli, si rileva una “responsabilità del discorso in quanto agente portatore di azione sulla scena”: la parola, sovrana del dire, si declina con ritmo moderato e pause significative; con stile ironico lieve, si susseguono fittizi dialoghi che dicono senza comunicare, ridondanze di luoghi comuni, reiterazioni che sottolineano l’importanza che del non-detto, del sottinteso. Caspanello, da autore attore e regista, costruisce movimenti scenici semplici ma precisi, nitidi, in maniera tale che ogni segno diventi raccordo, rimando fondamentale per il complesso snodo drammaturgico. Talvolta, il fulcro e il fine di uno spettacolo non è l’espressione scenica in sé ma è ciò che la precede e la rende possibile.

Interessante sarebbe stato seguire l’idea creatrice, quella che pian piano prende forma, che si riformula continuamente, che lotta in un divenire, per diventare messaggio compiuto, per asserire coraggio in un processo di trasmissione artistica, che tenta di affermare con forza che, nonostante gli innumerevoli ardui confini da valicare, è ancora possibile che ogni epoca crei la sua Arte, la sua propria anarchia.

Antonella Rossetti

Nuovo Teatro Sanita’
piazzetta san Vincenzo 1 – Rione Sanità, Napoli
contatti: 3396666426 – info@nuovoteatrosanita.it – www.nuovoteatrosanita.it

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