Danio Manfredini: l’intervista
Il Maestro Invisibile e la sua “Vocazione”: salvaguardare la propria arte da un consumismo che ne detta le leggi.
Una carriera al di fuori dei canoni ordinari: così potremmo definire quella di Danio Manfredini il cui inarrestabile lavoro di ricerca personale ha prodotto spettacoli che, senza inseguire la notorietà fine a se stessa, riescono a regalare al pubblico momenti di riflessione. Nel caso di Vocazione, ad esempio, in scena al Teatro Bertold Brecht di Perugia lo scorso 27 marzo, insieme a Vincenzo Del Prete, storico compagno di viaggio, il Maestro Invisibile, così come viene chiamato, ha tracciato “un quadro sulla figura dell’attore teatrale, i diversi stadi che attraversa nel percorso professionale, su come l’arte e la vita si contaminano”. Originale lo stile che lo contraddistingue e che lo ha portato, non a caso, a ricevere quattro premi Ubu. L’ultimo, nel 2013, nella sezione Premi Speciali “per l’insieme dell’opera artistica e pedagogica, condotta con poetica ostinazione e col coraggio della fragilità, senza scindere il piano espressivo dalla trasmissione dell’arte dell’attore. Questa costante ricerca, apertasi da ultimo alla via del canto, gli ha consentito di diventare uno dei rari maestri in cui diverse generazioni del teatro si possono riconoscere”.
Prima che salisse sul palco, abbiamo chiesto al tempo di fermarsi per concederci qualche attimo con lui che, con la disponibilità che lo contraddistingue, tra passione per il suo lavoro e grande sensibilità, ci ha così condotti per mano nel “suo” teatro.
In Vocazione in scena c’è “l’attore”, nudo e crudo così com’è, il percorso che intraprende e il risultato artistico che viene a delinearsi alla fine del suo viaggio. In quale momento della sua vita ha sentito l’esigenza di indagare tutto questo?
L’idea mi è venuta in un particolare momento di riflessione. Considerando anche la situazione storica di crisi complessiva che c’è stata in questi ultimi anni, soprattutto in campo lavorativo e, ovviamente della cultura, mi sono interrogato sul mio lavoro, sul perché si fa fatica a viverne, su come poterne salvare la qualità. Sono partito dal fatto che, a mio parere, c’è sempre una certa aggressione verso l’arte da parte di un consumismo che cerca di dettarne i tempi, i modi di creare, in funzione di un sistema commerciale. Mi sono domandato che possibilità c’erano ancora oggi di salvaguardare la propria arte e, per questo, ho cercato di comprendere come hanno percorso questa strada prima di me altri artisti di teatro. In questa ricerca, risalendo anche ad opere come quelle di Mann e Cechov e studiando i protagonisti di epoche precedenti, ho riconosciuto che il destino degli attori di teatro è stato segnato frequentemente da difficoltà.
Per la messa in scena di Vocazione si è ricorso al crowdfunding: come interpretare questa scelta, come positiva in senso di stimolo, o piuttosto negativa nel senso di disinteresse nei confronti della cultura?
Si, c’è stata una piccola parte del progetto che si è affidata al crowdfunding da parte della Corte Ospitale che ne è produttore, ma il sostegno da parte del pubblico è avvenuto solo in piccola parte perché è un lavoro a basso costo. Sarebbe meglio, a mio parere, non dovervi ricorrere ma in questo momento le realtà più piccole non sono appoggiate da grandi strutture, come lo sono invece i teatri nazionali o istituzioni di altro genere. Ad esempio, ora sono appoggiato dalla Corte Ospitale che è una piccola struttura ma in altre occasioni lo sono stato anche da grandi centri e l’aiuto economico che arriva da questi ultimi è ben diverso. Vocazione è un lavoro fatto con pochi soldi in cui ci sono in scena due persone, io e Vincenzo Del Prete che mi fa da partner in vari momenti. Il nostro è un modo per far vivere gli spettacoli, altrimenti avremmo si degli spettacoli più grandi, ma fermi nei magazzini perché in questo momento non riuscirebbero a girare.
Lei è anche Direttore dell’Accademia d’Arte drammatica del Teatro Bellini di Napoli (2013-2016): come riesce a riconoscere la “vocazione” nelle nuove generazioni con cui entra in contatto quotidianamente?
In realtà non riesco tanto a riconoscerla perché la “vocazione” non è solo una risposta ad una “chiamata” che si riceve perché si possiede del talento, ma chiede anche una certa costanza e un riuscire ad andare avanti nonostante difficoltà e scoraggiamenti . Diciamo che quello che riconosco abbastanza è la qualità del talento dopo poco tempo che lavoro con le persone. Magari riesco a capire chi è segnato da questo particolare e il bagaglio di partenza che possiede, ma ciò non basta se non approfondisci, non studi, non lavori.
Immaginiamo l’apertura del sipario: un giovane attore è lì, sul palco, magari da solo, pronto ad offrirsi alla platea. Cosa gli consiglierebbe Danio Manfredini per affrontare il suo primo momento importante?
Di concentrarsi molto sul proprio compito artistico prima di entrare in scena. Ci sono spettacoli che hanno una quarta parete aperta che richiede un contatto immediato con il pubblico, altri che avvengono con la quarta parete chiusa e richiedono una concentrazione sul personaggio in particolare.
Facciamo un passo indietro. Nel 2012 esce Incisioni in cui lei ripercorre in qualità di interprete e chitarrista, la storia di cinquant’anni di musica italiana. Come nasce l’idea di cimentarsi in questo progetto musicale?
È stata una proposta che mi hanno fatto Cristina Pavarotti, una delle figlie di Luciano, e Massimo Neri, suo marito e co-produttore, dopo avermi sentito cantare in uno spettacolo con Pippo Delbono. Siamo partiti dall’idea di incidere alcune cover di musica italiana ma, in realtà, più che fare un excursus degli ultimi cinquanta anni, ho preferito scegliere delle canzoni che in quel momento andavano a rispecchiare una fase che attraversavo, ovvero la fine di una storia d’amore. I brani quindi ripercorrevano la parabola di una storia d’amore fatta di persone, relazioni, difficoltà. Ora stiamo lavorando ad un altro disco che uscirà a breve di cui alcuni pezzi, non ancora del tutto arrangiati, fanno parte anche di Vocazione, e vanno a rappresentare il pensiero dell’artista che ogni tanto arriva in scena sotto forma di canzone.
Incisioni, leggiamo dal suo sito, “è un disco di canzoni scelte per raccontare dell’umano, del suo bisogno amoroso e di quel “bel malessere” che spesso l’accompagna”. Questo bisogno amoroso seguito dal “bel malessere” è, secondo lei, segno di debolezza o di forza nell’uomo?
Bella domanda. Da un lato si vorrebbe non avere bisogno , non sentirsi dipendente da qualcuno per non soffrire. Dall’altro, questo aprirsi in un rapporto amoroso al bisogno, appunto, è complicato ma segno di grande coraggio.
Tra gli artisti con cui ha lavorato c’è Pippo Delbono di cui colpisce la sua teoria per cui lo spettatore deve “perdersi” a teatro un po’ come quando si chiudono gli occhi e si ascolta un brano musicale, lasciandosi trasportare dal suono. Cosa ne pensa di questo ”teatro sensoriale-emotivo” , se ci passa l’espressione?
Condivido questa espressione perché il tentativo dello spettacolo teatrale è, in effetti, quello di proporre un viaggio al pubblico. In partenza è una richiesta di fiducia, di lasciarsi portare. Poi, certo, se lo spettatore è distante o non gli piace il percorso, lui stesso lo interrompe. In Vocazione, ad esempio, recitiamo ma ci sono anche musiche, fotografie, costumi, immagini, proiezioni video, c’è un linguaggio abbastanza articolato che vuol essere un tentativo di trasportare lo spettatore in un viaggio che non è quello canonico della commedia classica. C’è una drammaturgia della parola ma anche una drammaturgia della messinscena complessiva a volte data da un filmato, a volte da una maschera, a volte dalla parola, a volte dalla musica.
Nel suo spettacolo, durante alcuni momenti, delle maschere coprono il viso dell’attore. Secondo lei, la maschera in cosa può aiutare l’attore?
Ognuno lavora la maschera a seconda della funzione. In Vocazione le utilizziamo perché portiamo in scena personaggi a volte lontani da noi e nel fare ciò, pertanto, ci aiuta. Ma ha anche una funzione ulteriore: porta a differenziarsi, a staccarsi dalla condizione di artista che in questo caso sono io. Conduco il gioco come “attore riflettente” ma anche “portatore delle visioni” che questo attore ha, visioni che a volte faccio apparire, appunto, attraverso le maschere.
In ultimo, “tornando” in Umbria: cosa pensa dell’ospitalità di Fontemaggiore e di un teatro strutturalmente “moderno” come il Bertold Brecht che, credo, lei conosca ormai bene?
Sono stato a Perugia varie volte. All’inizio, negli anni Novanta, ospite del gruppo della Sala Cutu di Teatro di Sacco con Roberto Biselli, poi al Morlacchi anche attraverso altre organizzazioni e l’anno scorso al Brecht, ospite di Fontemaggiore per Incisioni e per Tre studi per una crocifissione. Sinceramente posso dire che mi sono trovato moto bene e il Teatro Brecht è una bella struttura che premia la relazione tra pubblico e platea perché permette sempre una buona visibilità, senza troppa distanza. Poi, in Fontemaggiore, vi sono sicuramente persone attente e amanti di questo lavoro e di quello che è il rapporto con gli artisti, con i tecnici. Per me è fondamentale al giorno d’oggi l’elemento della qualità umana che si incontra mentre si lavora. La parte artistica e professionale non possono certo mancare ma direi che l’aspetto umano è la base: se non consideriamo prima di tutto ciò è inutile parlare di carte.
Francesca Cecchini