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Al Te.Co di Fuorigrotta in scena lo scorso 27 e 28 marzo il testo di Meola che in un monologo prova a descrivere le inquietudini di chi è alla soglia dei trent’anni e cerca “il suo posto nel mondo” tra dubbi e incertezze.

Fonte foto Ufficio stampa

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L’atmosfera familiare del piano interrato di via Diocleziano adibito a teatro ci fa chiudere un occhio sui trenta minuti di attesa che precedono l’inizio de Il club delle indecise, di Giovanni Meola, per la regia di Chiara Vitiello; come in una riunione tra amici, bisogna attendere che siano arrivati tutti, e c’è sempre qualcuno (più d’uno) in ritardo.
Lo spazio limitato della scena non è marcato da nessuno degli elementi che abitualmente lo individuano, non c’è infatti palco né sipario e lo stesso è riconoscibile solo perché già allestito di fronte ad una vuota platea di sedie nere in attesa del pubblico.
L’istantanea di una giovane donna adagiata su un letto, tra scatole-regalo e teste di manichini variamente imparruccate, elementi simbolo di una molteplice identità femminile prêt-a-porter, si anima al suono insistente degli allarmi-sveglia, contro i quali ella, novella Bella Addormentata, inizia a combattere “picciosa” fino a prender parola.
Racconta di sé: si chiama Daniela ed è una quasi-trentenne che, nonostante il desiderio di affermarsi e determinare la propria esistenza, non riesce ad uscire dal limbo dell’indecisione, al punto da elevarla a tratto-principe della propria personalità; segno distintivo e titolo onorifico conferito nell’esclusivo “Club delle Indecise”, un consesso femminile ipotizzato a sostegno del suo deliro fantastico.
L’approdo cui è rivolto il “flusso di coscienza” di Daniela è la scelta tra due condizioni di vita,  simboleggiate dalla relazione con due uomini diversi: Davide, con cui intrattiene un noioso e rassicurante rapporto di coppia, e, Gianluca, con il quale vive il brivido della relazione clandestina, travolgente ed incerta.
Questa storia e la sua narratrice-protagonista vengono proposti attraverso un registro comico, leggero, “falso grottesco”, che purtroppo né l’autore, né la giovane regista, né (ahi-noi!) l’attrice (Francesca Romana Bergamo) riteniamo riescano adeguatamente a sostenere.
Il primo perché si attarda a considerare aspetti un po’ datati della femminilità contemporanea, mostrando di voler cogliere all’interno del personaggio un’anima che invece continua a guardare dall’esterno; la regista perché commette l’ingenuità di sottolineare la mancanza dell’autore nella presentazione del personaggio e della sua condizione, finendo per far procedere lo spettacolo sulla base di trovate visive, che utilizzano l’intrinseca polisemia degli elementi in scena (il letto con la zanzariera: baldacchino/culla/utero; i pacchi regalo: aspettative/annipassati/eventi; le teste dei manichini: mancanza di concretezza/aspetti della personalità/bambole/pubblico/amiche; la musica: suono/ sogno/ sveglia, le luci: sipario, etc.) pretestuosamente e didascalicamente, cioè soltanto per riempire il tempo di un ritornello che alla lunga stanca.
Certamente lo sviluppo drammatico può mancare volutamente, con criterio, in un testo volto a descrivere una situazione di sospensione e di attesa (esempio classico: Waiting for Godot); tuttavia, non può mancare, se non ad arte, in uno spettacolo teatrale (ancora Waiting for Godot!).
In merito all’interpretazione dell’attrice, invece, impossibile diventa non evidenziare come spesso sembri saltare non solo i tempi ma anche i modi e le forme plausibili di una comicità contemporanea, ristabilendo, tra l’altro, una fastidiosa “quarta parete” attraverso l’assenza del contatto oculare col pubblico, contatto che invece dovrebbe risultare imprescindibile all’interno del format del “racconto di vita”, o comunque della confidenza sentimentale, in uno spazio così esiguo.
Da ciò la constatazione spiacevole ma purtroppo evidente di come l’umorismo pirandelliano offerto della condizione sospesa di questa donna, bambola-bambina nell’epoca del post-femminismo, non riesca, se non in brevissimi momenti a suscitare il riso o la riflessione; nonostante le potenzialità percepibili, ma implicite, tanto del testo quanto della messinscena.
Alla fine, dunque, lo spettacolo rischia di non valere l’attesa e che possa risultare una occasione persa è un peccato, perché i giovani implicati nell’impresa hanno messo in piedi da pochissimo tempo una realtà, il Te.Co, che continua a reggersi degnamente sulle proprie gambe. L’ultima parola è, per questo motivo, d’incoraggiamento (come dev’ essere sempre, secondo chi scrive,  quando si parla ai giovani): per fortuna, tutto ciò che ora non si vede, ha tutto il tempo per fiorire.

Stefania Nardone

Te.Co. – Teatro di Contrabbando
via Diocleziano 316, Napoli
contatti: http://www.teatrodicontrabbando.com/

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