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Comico, irriverente e incredibilmente vero il nuovo testo di Mario Gelardi che partendo da una disamina ancestrale della realtà si trasforma in occasione attuale di riflessione, non senza ironia.

Fonte foto Ufficio stampa

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È andato in scena al Nuovo Teatro Sanita’, durante la settimana santa, l’ultimo spettacolo scritto e diretto da Mario Gelardi, La terza comunione, che ha visto impegnati Carlo Caracciolo, Luigi Credendino e Ciro Pellegrino nei panni di vecchie bizzoche spettatrici di un evento clamoroso: l’impossibilità per una bambina di ricevere la prima comunione per la sua inspiegabile difficoltà ad ingoiare l’ostia, motivo di un fiume di commenti, curiosità e battute taglienti da parte delle tre donne.
Scritto per indagare, attraverso la lente del presente, l’approccio al rito, alla preghiera tramite l’immagine tipica di coloro intente a recitare il rosario, ma al contempo per far sorridere (e il pubblico infatti si diverte parecchio), la messinscena riesce perfettamente nel suo intento grazie al testo marcatamente napoletano nell’ispirazione e nei dialoghi, agli scambi di battute irriverenti e ai giochi di mimica a cui i tre bravissimi attori danno vita sin da dietro le quinte. Ed è proprio la perfetta sintonia tra i protagonisti – che ben caratterizzano i loro personaggi attraverso cadenze dialettali e movenze che assumono tratti comici ma al contempo realistici e vicini a quello che può essere un ricordo, un racconto o la realtà di alcuni paesi del profondo Sud – insieme alla commistione equilibrata tra drammaturgia e interpretazione, così come all’ambientazione più che mai verosimile (siamo all’interno di una chiesa settecentesca), a rendere la messinscena perfettamente costruita, una piccola parentesi di riflessione e di allegria su ciò che siamo e che ci circonda, sul nostro modo di vivere ed interpretare la fede.
Del resto, non è la prima volta che Gelardi affronta un tema religioso: già era accaduto con Lui, il figlio, storia corale della passione di Gesù Cristo, andato in scena lo scorso anno nella Basilica di Santa Maria della Sanità, a dimostrazione, ci spiega l’autore, «di un percorso che non è nemmeno finito e continuerà molto probabilmente l’anno prossimo con un altro spettacolo che, dopo il sacramento, posso anticiparvelo, pensiamo sia il funerale». Ad ispirarlo in tal senso «il luogo in cui sono (n.d.r. Il Nuovo Teatro Sanità) che in qualche modo mi fa riflettere, ma anche il fatto che non mi basta più uno spettacolo quando voglio affrontare un tema così importante, avvertendo piuttosto il bisogno di declinarlo e vederlo da più punti di vista».

Fonte foto Ufficio stampa

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Non è un caso, infatti, che nel teatro di Gelardi tematiche e forma siano spesso apparentemente all’opposto, ovvero che allo spessore dell’uno si contrapponga la leggerezza dell’altro: il perché di questa cifra stilistica è da ricercare nel fatto che, come afferma il regista, «io non voglio fare il teatro educativo, io non voglio che il pubblico venga a teatro pensando che dall’altra parte ci sia qualcuno che vuole insegnare qualcosa: quello di pensare che chi guarda, ossia il pubblico in quanto massa indistinta, sia in qualche modo ignorante e meno preparato rispetto a chi sta sul palco è una presunzione che hanno molti artisti. Invece, io credo che determinate cose se riesci a farle passare con la leggerezza, con una certa soavità, rimangono di più. Le lezioni le lasciamo ai professori, ai sociologi, ai psicologi: a teatro facciamo teatro».
Eppure, nonostante sia “levità”, nell’accezione calviniana, in alcuni casi, la parola d’ordine, in questo così come in altri lavori firmati dal drammaturgo napoletano, frequenti sono le contaminazioni e i richiami a diversi autori teatrali e non solo, segno di una formazione professionale e personale ampia e trasversale che affonda le sue radici innanzitutto nel cinema di Ken Loach ma soprattutto di Francesco Rosi che, afferma il regista, «considero il mio maestro per quanto riguarda l’impegno civile essendo in grado di far passare temi politici importantissimi raccontando “semplicemente” storie».
Se queste sono le premesse che hanno influenzato e continuano a influenzarne il lavoro, marcatamente “partenopea”, però, è l’ispirazione per La terza comunione («Che qualcuno ha definito il mio spettacolo più santanelliano per come è affrontata la tematica in chiave surreale e paradossale») in cui – conclude il direttore artistico del teatro di piazzetta San Vincenzo – «credo di aver messo tutto quello che ogni napoletano ha dentro della tradizione teatrale: c’è Eduardo, c’è Peppino, c’è Scarpetta, c’è Totò» ai quali è apertamente dichiarato il riferimento «senza avere il pudore di dire “questo assomiglia a…” perché insito e proprio di ciascuno che fa teatro a Napoli è il loro lascito, anche se, inevitabilmente, forte si può insinuare la volontà di rinnegarlo o distaccarsene».

Irene Bonadies

 

Nuovo Teatro Sanita’
piazzetta San Vincenzo 1 – Napoli
contatti: 3396666426 – http://www.nuovoteatrosanita.it/

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