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In prima assoluta al Teatro Bellini di Napoli, Qualcuno volò sul nido del cuculo per la regia di Alessandro Gassmann e l’adattamento di Maurizio De Giovanni, chiamati a confrontarsi con uno dei film più di successo della storia cinematografica.

Fonte foto web

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«Le Grandi Storie si riconoscono subito»: Maurizio De Giovanni introduce con queste parole il suo lavoro di riscrittura del testo di Ken Kesey Qualcuno volò sul nido del cuculo, compiuto per l’adattamento teatrale firmato da Alessandro Gassmann e prodotto dalla Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini.
Ed effettivamente “grande” è la storia raccontata nel romanzo, poi trasposto in teatro nel 1971, a Broadway, da Dale Wasserman e infine diventato film vincitore di 5 Premi Oscar (Miglior Film, Miglio Attore protagonista, Miglior Attrice protagonista, Regia e Sceneggiatura), quella nata dalla penna dello scrittore statunitense nel 1962 che, partendo da una sua esperienza personale, intese indagare la realtà degli ospedali psichiatrici (e dunque la più ampia dicotomia tra “pazzi” e “sani”, tra libertà e coercizione) attraverso la figura di un indolente personaggio forse matto per finta, che porterà lo scompiglio totale – sovvertendo regole e insinuando la possibilità di nuovi sguardi agli altri reclusi, vittime di propri fantasmi e paure indotte ‒ all’interno di un manicomio californiano.

Al suo debutto in prima nazionale lo scorso 10 aprile a Napoli, dove rimarrà  in scena fino al 19, la nuova rilettura della vicenda si distacca dai tempi e dai luoghi dell’originale, per trasportare la trama in Campania e declinarla al presente con l’intento – spiega l’autore ‒ di  provare a vedere se «potevano sopravvivere le amicizie, i rancori e le tenerezze di questa meravigliosa e delicatissima Storia».
Ed è qui che iniziano i problemi. Se infatti forte e indubbia è la forza umana, sociale, emozionale del tema intorno al quale la messinscena si sviluppa (oggi più che mai attuale dopo la chiusura degli OPG divenuta operativa ad inizio aprile di quest’anno), e se incontestabile è l’onestà intelletuale con cui sia De Giovanni che Gassmann hanno pensato e affrontato il lavoro, non altrettanto pregno di empatia, compassione, capacità di coinvolgimeto e immedesemimazione è il risultato finale che si ottiene. Come se incolmabile restasse la distanza tra chi, sul palco, è chiamato a far rivivere i vissuti di ciascuno dei dodici protagonisti, le relazioni amicali tra di loro esistenti, gli abissi di cui ognuno è vittima, e chi, invece, quegli stessi microcosmi di esistenza è invitato a sentirli sulla propria pelle, da spettatore che coscientemente partecipa alla realizzazione dell’articolato “gioco del teatro”, anziché subirne le azioni come se si stesse dinanzi ad uno schermo tv.
Eppure è proprio questa la sensazione da cui non ci si riesce a liberare durante le lunghe (e ingiustificate) due ore e quarantacinque minuti di rappresentazione, nel corso delle quali il telo trasparente che chiude la scena per consentire la proiezione delle videografie usate dal regista «per tradurre in immagini i sogni e le allucinazioni dei cosidetti “diversi”» si assurge a reale quarta parete che spezza ogni legame comunicativo tra interpreti e spettatori, e che solo alcune scene riescono a scalfire (quella della finta telecronaca della finale di calcio dei Mondiali del’82, per esempio, che forse ugualmente avrebbe conservato la sua efficacia anche senza la gigantografia del volto di Tardelli), provocando attesi sussulti, prima che nuovamente, però, la “quiete” torni a predominare, impedendo quel respiro, quel voloche lo straordinario film con Jack Nicholson ci aveva dato la prova fosse possibile e che in questo caso si fatica, invece, a spiccare.

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Pulita, quasi fastidiosamente impeccabile la regia (che ottimamente sostituisce con il disegno luci di Marco Palmieri le inquadrature strette proprie del cinema attirando di volta in volta l’attenzione su uno o più personaggi in particolare), così come la prova attoriale (che vede Daniele Russo, alias Dario Danise, nei panni del protagonista principale e Elisabetta Valgoi in quello della infermiera Ratched, e con loro, nel ruolo di pazienti definiti “acuti”, Gilberto Gliozzi. Mauro Marino, Daniele Marino, Marco Cavicchioli, Alfredo Angelici, Giacomo Rosselli, e Giulio F. Janni, Gabriele Granito, Antimo Casertano, Giulia Merelli in quello del personale dell’ospedale), da cui, però, ci si sarebbe attesi maggiori guizzi, sbavature, follie e costruzioni meno stereotipate che, mancando, sembrano aver costretto in un recinto potenzialità a cui si sarebbe dovuto riconoscere la fiducia della improbabilità, del non previsto, dando reale consistenza a quello che, nelle intenzioni, Gasmmann intendeva fosse «un grido di denuncia che scuote le coscienze e fa riflettere» e invece resta soffocato. Come Danise per mano del suo amico e alter ego Ramon (maestoso nel fisico così come nel ruolo che ricopre, il cui silenzio, più di altre battute, comunica e trasporta, e a cui va il merito di aver dato nuovo riverbero all’immagine finale, l’unica davvero in grado di emozionare per l’intensità con cui è stata costruita), come i sogni che, nonostante tutto, in quello spazio grigio, anaffettivo, freddo (scenografato da Gianluca Amodio) ed esasperatamente regolamentato provavano a essere vissuti, come la conquista della libertà che è metafora di vita, dignità, rispetto per ciascun essere vivente, e che invece resta a metà. Come uomini a metà si vorrebbero considerare gli internati. Allora come oggi.

Ileana Bonadies

Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14, Napoli
Contatti: 081 549 12 66 – info@teatrobellini.it – www.teatrobellini.it
Orari: Mart./Giov./Ven./Sab. h. 21:00 – Merc./Sab.11/Dom. h 17:30
Prezzi biglietti: da euro 12,00 a euro 30,00

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