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L’attore e regista romano rivoluziona la forma ma non la sostanza: il suo spettacolo, andato in scena al Teatro Nuovo di Napoli, è un “j’accuse” verso le formule retoriche della politica.

Fonte foto Ufficio stampa

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Dopo l’incursione sul grande schermo con l’esperienza di Pecora nera (2010), Ascanio Celestini è tornato al primo amore. I Discorsi alla Nazione portati in scena al Teatro Nuovo dal 15 al 19 aprile, ne segnano il ritorno a Napoli, dove mancava da un paio di anni.
Il suo teatro non può essere separato dall’impegno civile profuso in questi anni e, anzi, ne rappresenta la più evidente espressione (non l’unica, come testimoniato dalla recente partecipazione al corteo in memoria di Davide Bifolco, il ragazzo ucciso qualche mese fa nelle strade del Rione Traiano). Critica alla società neocapitalista ed acuminata ironia si fondono, creando monologhi irresistibili che hanno reso riconoscibile la sua folta barba anche nel marasma televisivo nostrano.
I Discorsi alla nazione non si sottraggono a questo schema, ma lo sviluppano in maniera peculiare, allontanando lo sguardo dall’ambito strettamente italiano per provare un ragionamento di carattere più generale. Lo scenario – descritto ampiamente dall’attore nel lungo monologo introduttivo – è quello di un’ipotetica guerra civile in un Paese indefinito che non si fatica ad identificare con la stessa Italia. L’autore “cala” personaggi all’apparenza normalissimi in un contesto estremo – quello bellico, appunto – per osservarne minuziosamente i comportamenti e le riflessioni. La distopia, cliché tipico delle narrative horror e fantascientifiche, è qui volta a far emergere contraddizioni ed ipocrisie latenti della società moderna, sviluppate in monologhi che non lesinano simbolismi e metafore pur restando comprensibilissimi anche a chi non ha un dizionario politico granché ampio.

Fonte foto Ufficio stampa

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Quello di Celestini è un atto di accusa, l’ennesimo della sua carriera di artista impegnato, ma non per questo meno efficace: egli mette in guardia dal potere ingannatore delle parole, in specie in quel particolare tipo di linguaggio che è il linguaggio politico (per certi versi, dunque, lo spettacolo si ricollega ad un’altra opera di cui ci siamo occupati di recente – Si l’ammore no di Timpano e Frosini – a dimostrazione dell’attenzione che la ricerca artistica sta profondendo, di recente, in questo ambito). Verità e finzione escono appiattite dalla retorica politica, fino a nascondere le reali differenze tra tirannia e democrazia, dittatura e sovranità popolare; di tanto in tanto, sembra quasi riecheggiare il “War is peace” di orwelliana memoria. Unica preoccupazione dell’individuo finisce per essere la pioggia continua che colpisce il Paese, più che la stessa guerra civile, sintomo evidente dell’abbattimento di qualsiasi capacità di discernimento critico della realtà.
Celestini condensa in un’ora e mezza molti dei temi cui già ha abituato il proprio pubblico, discostandosi, tuttavia, dal suo teatro di narrazione per svelare, tramite singole scene, gli obiettivi della propria critica; non ultimo il pubblico, cui è rivolta (seppur indirettamente) l’invettiva finale.
Nessuno si salva ed il “pessimismo della ragione” – citato sul finire – sembra prevalere, tristemente, sull’ottimismo della volontà.

Antonio Indolfi

Teatro Nuovo
Via Montecalvario, 16, Napoli
contatti: botteghino@teatronuovonapoli.it – http://www.teatronuovonapoli.it/

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