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Una disperata parodia del presente e una provocazione: queste le caratteristiche dello spettacolo, andato in scena a Roma, che ricalca la struttura di una kermesse canora tra illustri suicidi, un presentatore imbonitore e l’immancabile valletta.

Fonte foto Ufficio stampa

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«Il corpo umano è un corpo morto, me lo scrollo di dosso». Con queste parole si uccide Marina Cvetaeva al “Festival del Suicidio”, andato in scena venerdì 10 e sabato 11 aprile al Teatro Millelire di Roma, autoprodotto da “Potevano Essere Rose”, progetto di Matteo Lolli ed Alessandro Lori e dedicato allo scrittore Giorgio Manganelli e al musicista Paolo Terni.
Parole ruvide e disorientanti che offrono la chiave di lettura della pièce: una stravagante e paradossale sfilata di sei poeti del passato, morti suicidi perché non hanno retto ai dictat del consenso (Vladimir Majakovskij, Vittorio Reta, Heinrich von Kleist, Marina Cvetaeva, Alfonsina Storni ed Anne Sexton), tutti interpretati con estrema abilità da un intenso Alessandro Lori e da una disinvolta Camilla Corsi, che vestono anche i panni del presentatore imbonitore e di una frivola valletta.
I personaggi ambiscono ad un premio di cui non potranno mai godere: una bara e una camera ardente. Tuttavia, prima di darsi platealmente la morte, interpretano con passione e trasporto un brano musicale e un componimento poetico, mentre su di un pannello video – unico elemento scenico – si alternano immagini della loro vita e case in fiamme, bambini scheletrici, cadaveri umani e di animali, che enfatizzano il pathos.
Ruolo centrale ha la musica che spazia da Beethoven a Mahler, Rachmaninov, Scelsi, Bernstein, Feldman. Particolarmente espressivi sono gli assoli di soprano resi dalla voce cristallina di Corsi.
Nel complesso, l’atmosfera, più che lugubre, è grottesca: la componente dell’intrattenimento, sottolineata dagli stacchi di avanspettacolo, esorcizza, quando non deride, la sofferenza dei protagonisti.
Il pubblico, infatti, è invitato a “godere” dei febbrili preparativi della morte dei poeti, anzi a farsi complice dei suicidi, dando il suo voto per il miglior candidato, come in un moderno munus gladiatorio. Il verdetto finale sarà espresso da un insolito marchingegno: il cervellone elettronico “merdernet 2015” – montaggio tra un water argentato e un disco dorato che simula un’antenna parabolica – che raccoglie le “valutazioni telepatiche-radioattive” e i pensieri “porno nevrotici ed inquinati” degli spettatori. Spettatori che, a loro volta, vengono trascinati nell’arena e resi vittima, come quando i presentatori si rivolgono loro chiamandoli “salme” ed aggredendoli con i riflettori puntati negli occhi, quasi fari abbaglianti di automobili in un incidente stradale.
Come spiega Matteo Lolli, regista e coautore della drammaturgia insieme con Alessandro Lori, «nella logica del Festival tutto deve fare spettacolo. In fondo, è lo spettacolo il vero omicida».
Un’opera irriverente e cruda che riesce, in novanta minuti, a reggere i ritmi del palcoscenico, coinvolgendo la platea in un tema scomodo – e spesso volentieri rimosso – come quello del suicidio e lasciandola, a mo’ di stoccata finale, con l’immagine di un predatore che spenna voracemente una colomba e le parole de “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese: «L’arte di vivere – dato che per vivere bisogna straziare altri – consiste nell’abituarsi a fare ogni porcata senza guastare la nostra sistemazione interiore. Essere capace di qualunque porcata, è il miglior bagaglio che possa avere un uomo».

Elvira Sessa

Teatro Millelire
via Ruggero di Lauria 22 – Roma
contatti: http://www.millelire.org/

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