Renato Carpentieri recita Kant
Al Festival delle Idee Politiche di Pozzuoli ospite, lo scorso 24 aprile, Il Teatro Cerca Casa con Il cielo stellato sopra di me, spettacolo intorno alla figura del filosofo Immanuel Kant raccontato attraverso gli occhi del suo servitore.
Dedicato al tema de “I diritti & il Diritto” si concluderà oggi la seconda edizione del Festival delle Idee Politiche che venerdì 24 aprile, nella giornata inaugurale, ha ospitato la performance teatrale proposta da Il Teatro cerca casa diretto da Manlio Santanelli. Nell’ampia sala del secondo piano di Palazzo Migliaresi, al Rione Terra, in scena Il cielo stellato sopra di me, di Amedeo Messina, rappresentato la prima volta nel 2004, in occasione del bicentenario della morte del filosofo di Königsberg, e allora come oggi, interpretato, in veste di unico protagonista, da Renato Carpentieri, che ne cura anche l’ambientazione e la regia.
Martin Lampe fa il suo ingresso. Lui, il servo di Kant, è un furbastro di prima categoria, come s’intuisce dal suo parlare franco e dallo sguardo profondamente schietto che l’attore gli restituisce quando incrocia gli occhi degli spettatori delle prime file. Lazzarone, quasi un Pulcinella per la sua natura tanto scaltra quanto spontanea e per la lingua-dialetto che adopera, un brandeburghese che si fa napoletano e viceversa, si accattiva da subito la platea iniziando a raccontare in cosa consiste il suo lavoro, ormai da venticinque anni: la sveglia all’alba, alle 4.55 per l’esattezza, perché così vuole il suo padrone, la colazione, il pranzo, servito sempre in compagnia di uomini di cultura e studenti a cui impartire nuove verità, ed altro ancora, non facendosi mai mancare l’ironia e un irriverente sarcasmo nei confronti del poco meno che ottantenne filosofo. Ma dietro la maschera del guitto c’è solo compassione e grande rispetto nei confronti di un uomo che ha trascorso tutta la vita a far filosofia e a insegnare, rinunciando talvolta ai propri desideri personali.
Lampe e Kant sono due universi a confronto, due modi di vivere che si scontrano e confluiscono nei gesti, nella parole e nell’intenzioni dell’unico interprete. Le due figure si alternano, giocosamente, in un’accennata battaglia che vede contrapporsi la ragione pratica alla pratica della vita, ben più spicciola e disincantata. Inventandosi quale attore che recita la parte di Immanuel Kant, il servo anticipa ed evidenzia il rapporto di precario equilibrio tra ciò che è finzione e ciò che può esser definito verità, tra il mondo sensibile, la bellezza e cioè “il cielo stellato sopra di me”, e l’etica, “la legge morale dentro di me”, libera ed universale per tutti.
Come da tradizione della Commedia dell’Arte, il personaggio, prima di allestire il suo spettacolo nello spettacolo, chiede un compenso a chapeau, intermezzo che crea non pochi attimi divertenti tra Carpentieri e chi è lì seduto per ascoltarlo. In quell’hic et nunc viene delineata, in frammenti, la filosofia di Kant: le sue teorie cosmiche sulla nebulosa originaria, le stelle, il debito intellettuale che ha nei riguardi di Rousseau, la sua avversità verso chi pretende di esportare la democrazia e la libertà con le baionette. Sembra che la crisi del pensiero corrisponda alla degenerazione del corpo malato e anziano di un uomo che non riesce neanche più a mostrarsi in pubblico. Nell’interpretazione che ne dà Renato Carpentieri, Immanuel Kant appare lucidissimo, anche nei suoi vuoti di memoria, col viso adombro di una tenera nostalgia, un velo impietoso che si poggia sulle palpebre di chiunque è vicino alla morte.
L’altalena tra le due voci è costruita con stabilità, punto di forza che serve a coinvolgere lo spettatore, a poco a poco sempre più rapito dalla capacità affabulatoria dell’attore. A lui, infatti, si deve riconoscere l’abilità di catturare l’attenzione dell’intera sala, sia quando racconta di Candaule, Gige e la regina di Lidia, sia quando è intento nel monologo finale. È adesso, nelle ultime parole del filosofo che ha prestato i panni al suo fido servitore, all’interno di quel gioco delle parti andato in scena, che la verità, dapprima ricercata e contemplata, comincia ad assumere i contorni sbiaditi di una menzogna, o quanto meno della realtà, lontana dall’esser una serie di precetti da osservare con rigore assoluto.
Antonella D’Arco
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