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Dal 29 maggio al 2 giugno la drammaturgia contemporanea ha fatto tappa a Castrovillari per la XVI edizione del festival diretto da Saverio La Ruina e Dario De Luca. Per raccontarlo, gli appunti di viaggio di chi l’ha vissuto per noi.

Foto Angelo Maggio

Foto Angelo Maggio

Due giorni, cinque spettacoli, tre debutti nazionali: questi i numeri della sosta a Castrovillari per la XVI edizione di Primavera dei Teatri (www.primaveradeiteatri.it) a cura di Scena Verticale, terminata martedì 2 giugno dopo una cinque giorni fatta di spettacoli, incontri, laboratori.
Ad inaugurare la maratona teatrale di sabato 30 maggio all’interno del Protoconvento francescano, quartier generale dell’intera rassegna dedicata alla drammaturgia contemporanea e sempre più consolidato riferimento al Sud per i nuovi linguaggi della scena, lo spettacolo Polvere. Dialogo tra uomo e donna di Saverio La Ruina, nel ruolo anche di interprete insieme a Cecilia Foti. Una coppia, un tavolo e due sedie i tre scarni pilastri su cui la storia si poggia, insieme ad un quadro che, sospeso all’interno della nera scenografia, diventerà il riflesso delle ossessioni sempre più acute di Lui, artefice di una violenza che prima di  esplicitarsi  fisicamente, è nei pensieri e nelle parole che si traduce, divenendo claustrofobica gabbia di una Lei sempre più smarrita e remissiva nel sopportare.
Costruito in forma ciclica nella sua ossessa ripetitività e diviso in quadri intervallati dal buio, il dialogo palesa sin dalle prime battute il clima di esasperazione in cui la relazione è immersa, di cui è vittima, in un crescendo di tensione e sofferenza che dal palco presto si trasferisce al pubblico: restare indifferenti alle umilianti frasi pronunciate dal personaggio maschile, infatti, diventa impossibile per chi seduto dall’altra parte è inerme spettatore di quanto accade. Ma paradossalmente non è al solo fotografo a cui La Ruina conferisce, con fastidiosa veridicità, una personalità distorta che la repulsione è diretta, quanto piuttosto alla donna, consenziente oltre ogni limite, disposta ad assecondare una follia per un confuso sentimento di amore,  e che per questo si avrebbe voglia di scuotere, svegliare affinché prendesse coscienza della sua condizione e reagisse liberandosene. Se infatti da un lato efficace è la scelta di affrontare la drammatica, purtroppo sempre attuale, problematica da un momento antecedente la violenza fisica, visibile, tangibile a differenza di quella psicologica, più subdola ma non meno dolorosa, e di descriverne l’abbrutimento che comporta e che il volto della Foti esterna con credibilità, dall’altro priva di un messaggio di riscatto sembra risultare la storia (a cui una maggiore brevità avrebbe giovato), incapace ai nostri occhi di consegnare una speranza, invece, forse necessaria, perché diventi monito ed esempio in positivo per chi in quella trappola ci vive e soffre realmente. Nel solco di quel teatro che osserva e riproduce, enfatizzandola, la società dei tempi, per svegliarne le coscienze e istillarne i cambiamenti.

Foto Angelo Maggio

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Quel teatro, fatto di attori e spettatori che Fibre Parallele descrive come “una comunità tenuta assieme da una tensione comune” e che perfettamente descrive lo stato d’animo e la condizione che da Polvere ci porta, quasi senza interruzione, a La beatitudine. Al suo debutto nazionale proprio qui a Castrovillari, la compagnia barese nata nel 2005 per volontà di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo costruisce una storia in cui è difficile tracciare una linea retta tra finzione e realtà, scegliendo piuttosto di indagare proprio la labile separazione “tra tangibile e immaginato, tra materia e pensiero”. Non è un caso, infatti, che entrati in sala gli attori (Licia Lanera, Ricardo Spagnulo, Mino Dacataldo, Danilo Giuva e Lucia Zotti) siano già lì sul palco e cammino avanti e dietro attendendo che il pubblico prenda posto prima di dichiarare “Buio” e iniziare la rappresentazione: siamo a teatro, con questa parola, secca, diretta a chi è alla regia luci, ce lo stanno ricordando, ciò che vedremo è frutto di una invenzione, ma è anche vero che il Teatro parla di quelli che lo fanno e di coloro che lo vedono, attinge dalle esperienza di vita di ciascuno, le elabora, e per questo motivo, ovvero per conservare perenne il senso di precario equilibrio tra le due dimensioni, nella messinscena a turno ognuno dei protagonisti si presenterà dichiarando nome, età e segno zodiacale per poi, solo allora, entrare nella “storia”. Quella di una coppia che perde un figlio appena nato e riversa il suo amore sofferente su un manichino dalle sembianze di un bambino, e quella di una madre e di un figlio sulla sedie a rotelle, legati in un rapporto che per il troppo amore si fa opprimente. A descriverle dall’esterno, in qualità di narratore del significato più intimo che sottende ciascuna, un quinto personaggio che parlando direttamente a noi  seduti in platea – nuovamente dunque operando uno squarcio nella finzione teatralizzata – ci invita a riflettere sul come e sul se la fantasia possa davvero aiutare a trovare una soluzione agli ostacoli che la vita ci mette davanti.
Geometricamente strutturata su piani speculari che inizialmente dividono lo spazio, per poi fondersi e confondersi in un intreccio di corpi, parole, sogni per fuggire dal dolore del presente, diventando quella che gli autori definiscono “la storia di un unico essere umano in tutte le fasi della sua esistenza”, La beatitudine affida all’interpretazione asciutta ma dirompente di ognuno dei suoi interpreti la poetica insita nella drammaturgia, e la trasforma in un colpo alla pancia dei sentimenti, senza intermediazioni. Senza che da quel vortice, che mischia dolore e frustrazione, ironia e sarcasmo, voglia di “beatitudine” e fatica a raggiungerla, se ne possa (voglia) uscire, coinvolti come si resta nelle trame di quelle vite, inventate eppure vere. Perfetta la colonna sonora, ulteriore e imprescindibile voce narrante e protagonista della messinscena, a cui viene affidato il compito di accompagnare i passaggi più significativi, in un parossismo di emozioni che sono le loro, ma anche le nostre. Di chi è sul palco, e di chi sta fuori. Di chi recita e di chi ascolta e guarda. Ancora una volta incerti su cosa si vero e cosa sia finto. Su dove finisca la realtà e inizi l’immaginazione.

Foto Angelo Maggio

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Affonda invece a piene mani nella Storia, quella della Prima Guerra Mondiale, per celebrarne l’anniversario dallo scoppio, e provare a restituire un nome, una voce, una identità a chi in quel conflitto l’ha persa per sempre, il monologo di Mario Perrotta, Milite ignoto – quindicidiciotto, magistrale esempio di scrittura drammaturgica che partendo da uno studio accuratissimo degli avvenimenti, si traduce in una preziosa sintassi dei sentimenti dai molteplici dialetti. Se è vero infatti che l’“italiano” come essere umano rappresentante di una unica nazione e come lingua nasce durante proprio quella guerra, è dalla frammentazione della lingua parlata dai piemontesi e i pugliesi, dai lombardi e i siciliani, dai veneti e i sardi, che Perrotta parte per raccontare coloro che sul campo persero la vita anche solo perché incapaci di comprendere gli ordini impartiti da chi non era un loro corregionale e parlava alla stessa maniera, e per questo ancora di più isolati, abbandonati a se stessi, “ignoti” ai propri stessi commilitoni ma anche al nemico, che non si vede, non ha un volto, ma si combatte da lontano, chiusi ciascuno nelle proprie trincee. Per 70’, come una partitura musicale, ecco che frangenti di vita si affastellano, acquistano drammatica visibilità per poi cadere nuovamente nell’anonimato, ed ecco Perrotta ridare con trasporto ed encomiabile compassione, a ciascuno di essi, dignità, valore, importanza, senza che il racconto di cui si fa testimone e tramite si mai interrompa ma risulti un unico sommesso grido in cui parole dal suono comune diventano il giusto ponte da una regione all’altra, da un pezzo d’Italia all’altro. Così percorrendo lo stivale intero e raccontando la distruzione, la morte, le bombe e gli spari attraverso le paure e le angosce non dei militari bensì degli uomini che si nascondono dietro quelle divise. Così restituendo con la forza delle sole parole e dell’intensa interpretazione, senza alcun elemento accessorio a spettacolarizzare il dolore, umanità a un tragico evento, nel patrimonio di tutti. E che per questo deve necessariamente essere presente nel ricordo di tutti.

Foto Angelo Maggio

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E ancora la lingua, il dialetto, questa volta napoletano, è protagonista in Scannasurice, di Enzo Moscato, che dopo il fortunatissimo debutto al Teatro Elicantropo di Napoli lo scorso gennaio, va in scena per la prima volta fuori casa, raccontando attraverso la superba interpretazione della protagonista assoluta, Imma Villa, diretta con cura da Carlo Cerciello, un periodo storico (il post terremoto del 1980), una città (Napoli) e attraverso essi un autore (Moscato, per l’appunto) poco noti – come scopriamo assistendo alla messinscena accanto a critici e spettatori di tutta Italia – nel panorama nazionale. Eh si, non abbiamo errato scrivendo “poco noti”: è proprio questa la sensazione che infatti ci assale al termine della applaudita replica, quando scopriamo che proprio la lingua e il contesto in cui la vicenda è ambientata non sono in realtà così scontati come si sarebbe immaginato per chi, essendo un addetto ai lavori o un semplice appassionato, dovrebbe masticare la nuova drammaturgia di cui Moscato è un esponente di rilievo. Rimandando dunque alla puntuale recensione scritta per il nostro giornale da Antonella Rossetti alle cui parole non potremmo affiancarne di altre più efficaci (leggi qui), è su questo aspetto che qui vogliamo soffermarci, non pretendendo di trovare alcuna risposta ai nostri interrogativi, ma certi che una riflessione in un futuro prossimo si debba affrontare. E debba partire da Napoli, per poi insinuarsi altrove, sconfinando, oltre gli steccati territoriali che innegabilmente esistono ma il motivo della cui esistenza è dato da capire, studiare. Chiedersi infatti come sia possibile che incursioni dialettali caratterizzanti un testo, e senza le quali quel testo sarebbe altro e sarebbe riflesso di un’altra realtà, non certo di Napoli, con le sue contraddizioni, la sua identità spaccata, i suoi abissi e le sue ricchezze, possano rappresentare un limite, un freno, alla capacità di entrare in empatia con il racconto, il personaggio, il baratro di cui si fa espressione, applicandovi una razionalità che invece, qui, è alle emozioni spontanee che deve lasciare il posto, è doveroso. Non alla Villa, né a Cerciello la responsabilità di un tale inatteso riscontro – la generosità con cui entrambi hanno affrontato il lavoro sin dai primi passi che l’hanno visto nascere così come il trasporto e il rigore con cui hanno dato carnalità al testo, sono indiscutibili – ma alla grammatica drammaturgica che, appunto, ha rivelato (con sorpresa per noi) di poter essere non universale, non oggettivamente trasversale, e per questo limitante nell’impatto su parte del pubblico. È da qui, pertanto, che crediamo sia necessario ripartire, per capire se e come un testo non italiano debba e possa essere diffuso, se e come sia possibile avvicinare allo studio degli autori teatrali, negli atenei, nelle scuole di teatro, al di là della provenienza regionale di ciascuno, in nome di quella conoscenza che si dovrebbe auspicare il più ampia possibile per consentire, poi, una scelta e di conseguenza l’espressione di una preferenza. Utile e meritoria, pertanto, l’opportunità offerta da Primavera dei Teatri, che se da un lato ha consentito a Scannasurice di farsi conoscere ancora meglio da un pubblico più diffuso, fuori da ogni campanilismo, dall’altro ha sollecitato riflessioni importanti di cui dovremmo fare tesoro, napoletani e non.

Foto Angelo Maggio

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Concludiamo la nostra lunga maratona, con il debutto di Io muoio e tu mangi, della compagnia riminese Quotidiana.com. fondata nel 2003 da Roberto Scappin e Paola Vannoni, anche autori e interpreti del testo in questione, 2° capitolo di una trilogia con il quale i due autori/attori intendono affrontare il tema non facile della buona morte. Raccontato dal punto di vista di una figlia costretta ad assistere un padre in fin di vita, e impostato in forma di dialogo dove a raccogliere i pensieri di un altro giorno trascorso in ospedale è il compagno di lei, lo spettacolo vorrebbe analizzare la spinosa problematica attraverso codici comici, in cui battute taglienti si alternano a riflessioni più cupe legate alla malattia, ma purtroppo fatica a decollare: una mono-tònia del linguaggio adottato, sussurrato e sempre uguale durante l’intero sviluppo della vicenda, infatti, impedisce di entrare nella storia, rischiando piuttosto di annoiare se non addirittura infastidire per le parole strascicate, senza apparente forza, non realmente comunicative di alcun stato d’animo, più adatte – forse – ad uno sketch comico che ad una prova attoriale vera e propria, nonostante i sorrisi provocati negli spettatori. Occasione, dunque, mancata per un invito alla riflessione, quale lo spettacolo voleva essere, che partiva da una considerazione non trascurabile (“Se la fine non è degna di essere raccontata allora anche la vita perde di senso”) ma infine risoltosi in eccessiva banalizzazione, senza che l’umorismo scelto quale cifra linguistica si dimostrasse realmente idoneo a sdrammatizzare e facilitare l’approccio come nelle intenzioni.

Ileana Bonadies

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