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Il regista romano inaugura il palco del Teatro Mercadante come luogo del NTFI 2015, portando in scena, l’8 e 9 giugno, la commedia di Carlo Goldoni, finestra sull’Europa e su un grande sogno «non ancora compiuto».

Foto Salvatore Pastore

Foto Salvatore Pastore

Sulla scena, vestita dei tipici palazzi veneziani, accompagnati dalle musiche di Nicola Piovani, eseguite dalla violinista Lisa Green, fanno il loro ingresso gli attori. Sono tutti mascherati, uno, il servo, ha persino addosso la giacca di Arlecchino, di cui quasi subito si spoglia, facendo riferimento alla prima scrittura goldoniana in cui era presente il personaggio, e a rimarcare ancora di più che siamo a Venezia, in pieno periodo di Carnevale. È proprio da questa festa, infatti, che prende vita l’intuizione del regista Maurizio Scaparro, il quale afferma che Goldoni, qui, «sembra prendere le distanze dalla visione magica della Serenissima, per descrivere nella sua Bottega del caffè una Venezia che già allora rischiava di dimenticare la sua grandezza e di cedere alle tentazioni di una progressiva mercificazione della città, delle sue bellezze e dei suoi carnevali.»
La commedia, scritta nel 1750 da Carlo Goldoni, vive di una trasposizione, nell’impianto scenico e nei costumi di Lorenzo Cutùli, coerente all’epoca in cui venne pubblicata, riflettendo il realismo della regia, che di contro non si è sforzata di cercare un’attualizzazione, né nella struttura, né nelle intenzioni.
Appare chiara la volontà di contrapporre due realtà, le due botteghe: quella del giuoco, gestita da Pandolfo (Ezio Budini) e quella del caffè, di cui è proprietario Ridolfo, portato in scena da un bravo Vittorio Viviani che diletta il pubblico nei battibecchi con Trappola, il servitore fidato, un po’ facilone e un po’ pettegolo, il cui ruolo è stato affidato ad un divertente e garbato Alessandro Scaretti. La diversa moralità dei due personaggi a confronto vive però nella stessa dimensione, quella del commercio e dell’utile, sebbene con motivazioni sostanzialmente lontane tra loro. Pandolfo è interessato soltanto a far giocare e a far perder quanti più zecchini ad Eugenio (Manuele Morgese), mentre il buon Ridolfo cerca di convincere il giovane a tornare a casa dalla sua bella e disperata Vittoria (Maria Angela Robustelli), in pena per la vita dissoluta del marito. Accanto a questa coppia, ce n’è un’altra da ricongiungere; si tratta del finto conte Leandro, in realtà Flaminio (Ruben Rigillo), e Placida (Carla Ferraro), che, in cerca del consorte, viaggia da Torino a Venezia, sotto le spoglie di una pellegrina e, giunta in laguna, apprende della tresca tra il suo compagno e la seducente ballerina Lisaura (Giulia Rupi).

Foto Salvatore Pastore

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Sui litigi, le riappacificazioni e gli intrecci di ogni sorta che si susseguono, vigila la figura di Don Marzio, tratteggiato da Pino Micol con un piglio di naturalismo recitativo che lo distingue dall’ensemble, fedele piuttosto ai modi della Commedia dell’Arte. Di quest’opera corale è lui l’antagonista che si frappone alla bonarietà del bottegaio. Entrambi però s’incaricano della faccenda,  in una qualche misura diventano come burattinai che manovrano i fili della volontà altrui, mostrando in scena un’abilità interpretativa forte dell’esperienza di mestiere sia da parte di Viviani ma soprattutto di Micol. La maldicenza del gentiluomo napoletano e la sua irrefrenabile capacità di seminare zizzania tra i protagonisti sono l’espediente della costruzione drammaturgica, ma anche la ragion d’esser della solitudine di cui egli stesso è vittima. Accusato dall’intera comunità, lui, Don Marzio, l’indiscreto spione che, a sua insaputa, consegna Pandolfo alla frusta dei birri, è spiato dalle finestre da coloro che aveva beffato fino ad un momento prima. La suggestione di quest’immagine, che restituisce agli occhi del pubblico, l’uomo quasi come un’ombra sul fondale della vivace vita di Venezia, costretto ad allontanarsi dalla città che ama, resta un guizzo nella sempre elegante ed estetica visione registica di Scaparro.
Mentre nella nota goldoniana de L’Autore a chi legge, il commediografo settecentesco parla dei suoi caratteri come “umani, verisimili, e forse veri”, in questa messinscena la verità, invece, sembra cristallizzata in un tempo troppo distante dall’oggi. In tal senso è stata concepita la staticità del palco e la direzione degli attori, impeccabili nella forma, ma estranei ed esterni all’essenza e alla modernità del messaggio di Goldoni. L’impressione avvertita è che sia mancato uno studio contemporaneo dell’opera, cosa che forse avrebbe veicolato la rappresentazione verso la sensibilità odierna, riuscendo a vivificare il classico.

Antonella D’Arco

Teatro Mercadante
Piazza Municipio, 1 – 80133 Napoli
8-9 Giugno | ore 21.30
http://www.napoliteatrofestival.it/

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