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Andate in scena al Parco Adriano con “Be Here”, le due attrici, autrici e registe raccontano la loro esperienza alla quarta edizione del Fringe di Roma.

Claudia Salvatore e Barbara Caridi

Claudia Salvatore e Barbara Caridi

Il titolo significa “essere qui”, adesso; coscienti in un presente indicativo posto a debita distanza di sicurezza dal passato e dal futuro. Un “qui” che accoglie l’incontro casuale, fatale, di due donne, abitanti temporanee di un parcheggio deserto, luogo di nessuno, di passaggio, con uno scopo: suicidarsi.
Ascoltiamo le protagoniste Claudia Salvatore e Barbara Caridi, giovani voci del teatro indipendente italiano, che “qui” ci sono con un lavoro inedito, creato appositamente per il Fringe Festival.

Provenite da una lunga esperienza con ricci/forte, e ora proponete un lavoro interamente scritto, diretto e interpretato da voi. Cosa significa mettersi in gioco insieme e “da sole” al Roma Fringe Festival?
Claudia Salvatore: Ho sempre seguito da vicino questo evento: provo un legame che, artisticamente parlando, potrei definire “famigliare”; e soprattutto quest’anno, in questo momento difficile per il teatro, quello indipendente in particolare, gli sforzi per ottenere questo spazio sono stati ancora maggiori, ancora più determinati.
La location è fondamentale e, nonostante il Parco Adriano e Villa Mercede a San Lorenzo siano entrambi all’aperto, a Castel Sant’Angelo si respira un’aria diversa, meno “raccolta”. Questo, se da un lato ci rende inevitabilmente più esposte, dall’altro ci avvolge in un’atmosfera non dissimile da quello di “Be Here” – qui la recensione –, che prevede un parcheggio desolato, di periferia, circondato da rumori ambientali e lontani. Certo, è uno scenario immenso che rischia di rapire lo sguardo e l’attenzione dello spettatore, e se lavori su temi delicati, che richiedono concentrazione, questa condizione può rendere tutto più complicato e faticoso. Ma sono difficoltà che ci stimolano a proteggere ancora di più il nostro spettacolo: perché, per me e Barbara, la cosa più importante era dare corpo a un’idea che avevamo in testa, tutte e due, da tanto tempo. Volevamo dargli una compiutezza, e l’unico modo era avere un fine, un obiettivo, che si è tradotto nella partecipazione al Fringe.

Barbara Caridi: Quando abbiamo pensato di accettare abbiamo valutato due elementi: la gratuità della partecipazione (che non è un fattore scontato o di poca importanza), e il posto, magico, centrale, che negli anni passati, con manifestazioni come “Invito alla lettura”, hanno attirato molte persone. Qui è sempre bellissimo anche se l’afflusso per ora resta molto, molto limitato. Fa parte della sfida, come gli imprevisti e le difficoltà tecniche che inevitabilmente ci limitano. È vero, siamo in un teatro all’aperto, e certamente avremmo dovuto tutelare di più il nostro lavoro: non nego una certa impulsività da parte nostra di voler accedere a una rassegna così importante, portando subito uno spettacolo che è un work in progress, che deve andare avanti, maturare, trovare un suo equilibrio; perché sappiamo cosa vogliamo dire, ma sulla forma dobbiamo ancora lavorarci. Però il Fringe ci consente anche questo: capire come migliorare, come esprimere non solo uno spettacolo ma, più in generale, la nostra concezione di teatro, ovvero una ricerca costante di commistione linguistica.

Uno spettacolo che ha implicato una gestazione mentale a due. Dunque, com’è nato Be Here?
CS: Nasce da un “micro-dialogo” che ho scritto in un momento particolare di amarezza, di volontà di lasciare tutto. Rileggendo quelle righe mi sono accorta che si stava inconsciamente plasmando un personaggio sempre più simile a Barbara. Così gliel’ho mandato, quel foglio. E per casuale tempismo e sintonia, anche lei stava riflettendo sulle stesse tematiche. Ne è conseguita una costruzione a quattro mani che, in cinque giorni, si è trasformata in un corto teatrale di venti minuti. Era un’idea ancora troppo piccola, così abbiamo deciso di nutrirla con i nostri reciproci deliri sulla scrittura, sulla regia, sulle immagini che ci venivano in mente. Volevamo penetrare attraverso il teatro un istante estremamente delicato, drammatico e misterioso, come quello che precede il suicidio.
Sono stati mesi di confronto costante, di stravolgimenti anche radicali, causati principalmente dalla particolare location che ci avrebbe ospitato: le musiche, per esempio, sono state riscritte da Umberto Fiore, e poi discusse, cambiate e adattate, insieme, fino a notte fonda. È stato un impegno notevole perché il compito delle sonorità, vere ma non reali, è quello di descrivere una scenografia visivamente assente, vuota, composto da allarmi e sensori che definiscono ciò che sta fuori, intorno ai corpi dei personaggi, e, allo stesso tempo, ciò che sta dentro le loro menti.

BC: Dalla nostra provenienza comune con ricci/forte sicuramente è scaturita la volontà di intraprendere una ricerca intorno a un linguaggio più performativo, meno concentrato sulla definizione di una struttura narrativa lineare e di personaggi specifici. E se ciò accade diventa per noi uno strumento, un mezzo immancabile attraverso il quale costruire un discordo che raggiunga, coinvolga lo spettatore, lo trascini sul palco, dentro lo spettacolo.
In “Be Here” ci focalizziamo sulla perdita di senso che abbraccia il momento precedente al suicidio. Ma in realtà ci rivolgiamo a una confusione che può toccare tutti coloro che nella propria vita hanno incontrato uno smarrimento, un disorientamento che ha lasciato stigmate fisiche e psicologiche. Lividi invisibili che si traducono in debito quotidiano esistenziale e che trascinano l’essere umano assuefatto in un meccanismo che prevede solo reazioni, risposte, non domande. Questo è il vero tema, il calore su cui vogliamo concentrarci.

Tutto si svolge in un parcheggio, luogo di sosta momentanea, di provvisorio distacco dall’umanità: uno spazio aperto, senza confini, dove però al tempo non è permesso entrare. Perché avete scelto di “essere qui”, in questo posto?
CS: È la domanda che ci poniamo durante lo spettacolo: perché siamo qui, in questo momento? È la mancanza di senso, di motivazioni, di alternative che ogni giorno, nella quotidianità, si (pro)pongono di fronte a noi, dalle più banali alle più tragiche, come il suicidio. E non c’è tristezza in questo, anzi c’è la determinazione, l’impulso, vitale direi, di continuare a porsi domande, di mettersi in gioco ricercando soluzioni e risposte. Cito Barbara e dico che si tratta di “eccessi della propria esistenza”: è come se si volesse cacciare fuori parte di sé ma ci si scontra con l’impossibilità di farlo, perché non capiti, perché non apprezzati, e a volte anche “violentati” dal disdegno altrui. Sono ferite e sono nuovi tentativi. Noi ci fermiamo in questo istante, prendiamo coscienza dell’effettiva perdita di contatto con la realtà e includiamo la possibilità di non tentare più. Un arresto interrogativo, nel quale compare l’idea di suicidio. Non vuole essere un pretesto per sentenze, giudizi, e soprattutto non può e non vuole essere un’analisi psicologica di questo atto di volontà. No, per noi si tratta di un dilemma che affrontiamo senza malizia, a cuore scoperto, dilatando gli attimi di “perché” interrotti che lo precedono. Sono quesiti, sono incontri. E l’unione di scena e platea ci permette ancora d’incontrarci, di metterci gli uni di fronte agli altri per guardare, parlare, donare noi stessi, sapere che non siamo soli. Credo sia una preziosità che ormai, fuori dal teatro, stia scomparendo.

Il Fringe è un festival del teatro indipendente. Voi, partecipanti di questo evento e “artisti off”, come commentate la condizione attuale che sta vivendo il teatro italiano?
BC: Gli spazi teatrali stanno chiudendo. Inutile negare che è una situazione drammatica. Io ho cominciato tardi, avevo in mente un percorso artistico che non mi permette di definirmi propriamente attrice ma performer. Dunque sono portata a non riconoscermi in tutto ciò che viene offerto, sono portata a dirigere il mio lavoro anche in altre direzioni, che vanno oltre l’essere esclusivamente “attrice”. Osservando e vivendo la scena di oggi, però, noto che il problema non è la mancanza di spazio per il teatro, ma per tutti i linguaggi. Attualmente io mi chiedo questo, oltre alla questione economico-amministrativa, che è grave: c’è posto solo per altri modi di fare teatro? Credo sia un problema a monte che non può riguardare esclusivamente un limite economico. È una volontà. Come lo è la nostra di continuare, di resistere con il teatro, per il teatro, nel teatro.

CS: Abbiamo scelto di non portare qualcosa di già noto, munito di consensi già raccolti, perché siamo dentro un festival off: l’occasione per proporre una visione nuova, diversa, sconosciuta anche per noi, perché accade qui per la prima volta, con tutti i (sani) pericoli che ne conseguono, con tutte le suggestioni e i suggerimenti che possono far crescere la nostra idea, sporcarla, arricchirla. È rischioso, certo. Ma fa parte della meravigliosa e imprevista vita del teatro.
Purtroppo, per quanto grande sia la passione, l’amore e la dedizione per questo lavoro, non ci è più permesso ritenerlo una professione. Possiamo utilizzare il termine “ambizione” (precaria) quando l’artista è scritturato, ma si passa a “utopia” quando si prova a intraprendere una strada autonoma, magari fondando una compagnia, magari proponendo progetti inediti, idee e riflessioni proprie. In quei casi, “hobby” è l’unico termine concesso. Per ora. Poi basta guardarci intorno, osservare questa edizione del Fringe, per capire come tutto ciò stia vivendo grazie alla fatica costante, ai nervi e al cuore degli organizzatori che lo hanno messo in piedi e lo portano avanti insieme alle compagnie. Un lavoro straordinario e una dedizione profonda che (per 5 euro) permette di montare e smontare tutte le sere tre palcoscenici, di provare e riprovare, di esserci, comunque, nonostante tutto. Nonostante i pochi sforzi degli enti che hanno preso l’incarico di realizzare un progetto del genere, ma solo “sulla carta”. Nonostante le collaborazioni e le partecipazioni garantite, ma solo per confezionare e diffondere l’immagine di una Roma pronta, attenta e disponibile verso simili manifestazioni culturali, senza poi fornire, però, un effettivo e coerente sostegno economico, amministrativo e logistico.
Credo che tutto ciò definisca una considerazione generale di questo mestiere che non include il concetto di rispetto. Forse perché, quando si concede indifferenza, assenza di preoccupazione e di supporto, semplicemente non lo si considera più un lavoro. È una voce amara che risuona forte qui al Fringe, dove l’attenzione istituzionale si è fermata ai cancelli del Parco Adriano, e non li ha mai attraversati.

Nicole Jallin

Info, orari e programma: www.romafringefestival.net –  info@fringeitalia.it – tel: 06 95944816

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