Manlio Boutique

Fortunato Cerlino, dal ruolo di attore a quello di autore e regista, firma il debutto di “Potevo far fuori la Merkel, ma non l’ho fatto”, tra dramma e grottesco, insieme con Marcello Cotugno.

Foto Salvatore Pastore

Foto Salvatore Pastore

“Analizzare senza giudizi il tempo della crisi”, si legge nelle note di regia, e provare a farlo – aggiungiamo noi – raccontando la storia di quattro personaggi estremizzati nelle loro paranoie e problematiche con l’intento di rappresentare uno spaccato verosimile di realtà in cui mancanza di certezze, bisogno di valide alternative, apatia, volontà di perseguire i propri sogni si alternano e susseguono in ordine sparso facendola da padrone. Questo in estrema sintesi il perimetro al cui interno si va a sviluppare la storia scritta da Fortunato Cerlino, anche regista insieme a Marcello Cotugno di Potevo far fuori la Merkel, ma non l’ho fatto, in scena dal 22 al 24 giugno nella Piazza d’Armi di Castel Sant’Elmo per il Napoli Teatro Festival 2015.
Ambientata all’interno di una scenografia (realizzata da Maria Teresa Padula, anche autrice dei costumi) in cui labili sono i confini tra interno ed esterno, tra ciò che accade tra le mura delle due rispettive coppie (marito, moglie, vicino di casa e amica) le cui vite reciprocamente si intrecciano e il mondo di fuori, la messinscena si abbandona a dei cliché, fortemente radicati nell’immaginario di tutti, per costruire il mondo interiore dei protagonisti e il malessere che li anima, fonte di frustrazione, disagio e inadeguatezza. Ecco, così, che ritroviamo una madre depressa di tre figli problematici, Gloria (Claudia Potenza), non in grado di sentirsi all’altezza di crescerli a tal punto da immaginare l’uccisione di uno; una giovane donna in cerca di primo lavoro, Yvonne (Roberta Spagnuolo), che sogna di approdare in Germania, così come un tempo si sognava l’America, per realizzarsi; un padre psicanalista per lo più assente, piacione e tronfio, Michele (Cesare Bocci), che presume di poter curare gli altri quando in realtà non è in grado di aiutare neppure se stesso; uno scansafatiche mantenuto dalla madre, Modesto (Francesco Montanari), che trascorre il suo tempo tra droghe di vario genere e film porno le cui immagini ripetutamente fanno da sfondo alla scena, insieme a quelle di colui che considera il suo mito-guru, Steve Jobs, alle prese con il celebre discorso all’Università di Stanford.

Foto Salvatore Pastore

Foto Salvatore Pastore

A dominare su tutto ciò che accade in palcoscenico – in un isterismo che resta tale solo nelle intenzioni, traducendosi nei fatti in una noiosa lentezza che ammazza sul nascere le ambizioni da “thriller psicologico” a cui il testo vorrebbe tendere – un pezzo di muro di Berlino, issato lì in bella mostra come un totem da adorare; simbolo di una Nazione messa, di continuo, tramite il personaggio di Yvonne, a paragone con l’Italia, a sottolinearne le capacità di sviluppo e ripresa, possibili grazie a una politica vincente, ma usata anche metaforicamente – attraverso l’immagine della Merkel – quale pretesto per far emergere un ulteriore aspetto della problematica complessiva che si intenderebbe indagare: il desiderio di occupare un posto nel mondo, di “passare alla storia”, che nel surrealismo della messinscena si palesa per un attimo nell’idea balzana di Modesto di eliminare con un banale vaso di fiori la cancelliera tedesca in vacanza ad Ischia.
Dunque, sono il realismo e l’esasperazione le due direttrici lungo le quali la drammaturgia si snoda, priva però di convinzione, senza che davvero emerga e, di conseguenza, venga percepito il motivo per cui un’analisi del genere debba risultare necessaria da portare a teatro così come è stata immaginata e strutturata e tale da giustificare un’ora e cinquanta di rappresentazione (senza intervallo), con il sospetto più che fondato, piuttosto, che le stesse cose si sarebbero potute dire anche con maggiore concisione. A favore di un testo che, anziché sulla prolissità, puntasse sulla reale capacità di disegnare uno spaesamento personale e collettivo riconoscibile, fonte di possibili riflessioni che in questo caso rischiano invece di diluirsi fino quasi a sparire.
Indubbiamente interessante, viceversa, la scelta registica di lasciare gli attori sempre visibili in scena anche quando non in parte, secondo la logica della rappresentazione specchio di se stessa, che svela l’inganno della finzione (lasciando che gli attori giungano agli spettatori, li guardino negli occhi, si rivolgano e abbraccino uno di essi  a caso come se fosse un ulteriore personaggio) ma al contempo è dentro di essa che ci riporta, in un continuo andirivieni tra dentro e fuori che richiama con coerenza le medesime riflessioni fatte all’inizio e che stavolta bene riesce a dare concretezza ai propositi autoriali espressi.
Al termine, timidi applausi.

Ileana Bonadies

Napoli Teatro Festival
Castel Sant’Elmo – Piazza d’Armi
22, 23, 24 giugno – 21.30
contatti: http://www.napoliteatrofestival.it/

Print Friendly

Manlio Boutique