Amore senza scandalo
“La donna nell’uomo”, “Masculu e fìammina”, “Geppetto e Geppetto”: per la rassegna di teatralità “Garofano verde – scenari di teatro omosessuale”, tre spettacoli per rappresentare la diversità.
Tre spettacoli al teatro India di Roma per l’edizione numero ventidue di “Garofano verde – scenari di teatro omosessuale”, curata da Rodolfo di Giammarco in collaborazione con la Società per Attori. Tre incontri teatrali in forma di tragedie scanditi in uniche rappresentazioni (il 15, 16 e 17 settembre), per penetrare con sensibilità di azione fisica e mentale, di espressività creativa e linguistica, di vertenze affettive private ed esibite, il tema della diversità. Tre capitoli per un confronto intimo e cosciente con se stessi e con gli altri, per decodificare emotivamente un sentirsi estranei a una presunta normalità di orientamento comportamentale, sessuale e morale.
Essere estranei all’esistenza, essere uomo inadeguato all’umanità, essere animale civilizzato in esilio perenne dalla vita reale, prigioniero volontario della propria anima. È l’Uomo dell’Orgia di Pier Paolo Pasolini che Licia Lanera trascina in sé, nel suo La donna nell’uomo, come unico personaggio che l’interprete pugliese trasforma in un reading di densità corporale e vocale riconducibile a una sola presenza simbiotica femminile e maschile. E sulla sua figura, nel nero di una felpa con cappuccio, fuseaux e anfibi, plasma l’imperscrutabilità di una vittima ardente di sofferenza e carnefice amante di suicidio, di perverso piacere e doloroso desiderio autoinflitto, di vita, di morte, di discesa nella propria indicibile intimità.
Con la penombra che concede alla vista una poltrona in pelle, un leggio e un microfono, la Lanera definisce una camera matrimoniale implosa in una realtà mentale oscura, grezza, ermetica, culla di un sadomasochismo che nella scrittura pasoliniana si riempie di un lirismo magnetico e scandaloso, tagliente e rivelatore. Parole che, ora lette ora registrate, sgorgano da un corpo violento e violentato che si denuda in un gioco morboso e malizioso, elevando quel “dar morte per morire”, quel far “buon uso della morte”, a necessaria redenzione da una forza vitale impetuosa e impietosa che soffoca l’esistenza, fatalmente.
E l’istinto passionale represso nel silenzio di una vita diventa, nel work in progress di Saverio La Ruina, discorso inedito, questa volta dialettale del sud, pacato, delicatamente sussurrato, con dramma e umorismo, a un’ascoltatrice materna che non c’è più. Egli, affabile unione di Masculu e fìammina, sviscera in confidenza alla madre defunta i suoi trascorsi, i suoi amori, i suoi rapporti, le sue sofferenze: quelli derivati dall’attrazione naturale, normale, verso i masculi come lui, quelli presenti e quelli vivi solo nella memoria. E quella memoria, trafitta da felicità infantili e tormenti adolescenziali, serenità e rimpianti attuali mai esternati, ora rompe le invisibili pareti del non detto, scioglie l’imbarazzato timore che l’incomprensione e il pregiudizio possano infettare quel legame sanguigno.
In un processo verbale in divenire, La Ruina, su una scena che immobilizza lo scorrere del tempo tra una lapide con fotografia e fiori, e una sedia pieghevole, si fa carico di una consapevolezza malinconica intuita e misteriosa di un dialogo-monologo irrimediabilmente ritardatario, muto e comprensivo, come quello che, in passato, avvolgeva in un semplice e sincero “statti attìantu” il sottile rispetto di domande pronunciate senza suono, e di risposte restituite senza voce.
Il reading assume anche i contorni di uno “spettacolo in prova” sul palcoscenico abitato da cinque personaggi relazionati per corrispondenza parentale o d’amicizia alla coppia gay dei protagonisti Luca (Tindaro Granata) e Tony (Paolo Li Volsi) – tutti con nomi e ruoli indicati sulla maglietta -, ovvero Geppetto e Geppetto. Tra panche laterali, adibite anche a riposo per attori non in scena, e un tavolo centrale intorno al quale far ruotare ambizioni e rinunce, incontri e perdite, prove d’affetto e capi d’accusa, Tindaro Granata crea una drammaturgia (forse un po’ estesa) che affonda nella genitorialità, voluta e ottenuta a qualsiasi costo, o qualsiasi prezzo, un dramma famigliare che si delinea prima attraverso scontri quotidiani con l’opinione pubblica, con i falsi moralismi e le mentalità ipocrite – duri a morire -, poi dando voce e grida future alla solitudine di due uomini: un padre sopravvissuto al compagno e un figlio divenuto ormai adulto (Emiliano Masala). Entrambi lontani dalla protetta spensieratezza del focolare, essi sono ora fulcro umano d’inedito duello interno fra diritti diversi, opposti: quello di essere padre per decisione propria, amorevole presente e devoto, e quello di essere figlio che quell’amore paterno non lo rinnega, così come non nega la mancanza di una figura femminile, materna, assente per benigne scelte preventive, personali e sentimentali, di altri.
Nicole Jallin