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In scena al Teatro Bellini di Napoli con “La musica provata”, dal 3 all’8 novembre, lo scrittore e poeta napoletano trasforma in note i ricordi di una vita e affida alle canzoni, arrangiate da Stefano Di Battista e interpretate da Nicky Nicolai, la sua autobiografia.

Foto Cesare Abbate

Foto Cesare Abbate

Il principio e la fine sono le parole.
Erri De Luca lo afferma con pacata e consapevole fermezza rispondendo alle nostre domande, quando lo raggiungiamo telefonicamente nel tardo pomeriggio di un mercoledì d’autunno.
E che siano davvero le parole il cardine intorno al quale ruota e si plasma la sua poetica, non potremmo dubitarlo neppure lontanamente dopo averlo ascoltato raccontare il suo lavoro di poeta, scrittore, “narratore di passaggio”, alla viglia dell’arrivo a Napoli, al Teatro Bellini (dove sarà in scena dal 3 all’8 novembre), de La musica provata, di cui è autore e protagonista, insieme alla voce di Nicky Nicolai, il sax di Stefano Di Battista e ai musicisti Roberto Pistolesi alla batteria, Daniele Sorrentino al  basso, Andrea Rea al pianoforte.
Un ritorno quello a via Conte di Ruvo che avviene dopo cinque anni dall’ultima volta in cui l’autore napoletano ha calcato il palcoscenico sito nel cuore del centro storico della città – ancora una volta dividendosi tra musica e poesia – con In viaggio con Aurora.
Ma se in quella occasione era alla giovanissima nipote a cui si rivolgeva per raccontarle il suo tempo e i suoi luoghi in un simbolico passaggio di testimone generazionale, qui è ad una autobiografia, in note e versi, di se stesso, tra ricordi e canzoni, che si affida lasciando che le suggestioni emotive che il connubio determina catturino e ammalino con profonda leggerezza.
È inevitabile, pertanto, che la nostra chiacchierata dalla musica parta.

Foto Cesare Abbate

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Erri e la musica.
Da dove ha inizio il suo rapporto con essa e perché ha voluto definirla “provata”?
Inizia con la musica napoletana e con la mia nascita da stonato, una mutilazione insopportabile in quella famiglia in cui sono cresciuto, sicché le donne di quella stessa famiglia tanto hanno fatto e insistito finché non mi hanno sistemato musicalmente l’orecchio facendomi diventare intonato; poi mi hanno anche avviato allo strimpellamento di una chitarra, così spingendomi verso quella parte – che non era quella giusta – ma che mi ha permesso di ritrovarmi con una buona compagnia: la musica, appunto, a tal punto che mi sono perfino azzardato ad andare in giro su dei palchi per raccontare storie, attraverso lo strumento della canzone.
Stavolta, però, sono molto più all’ascolto della musica perché con me ci sono fiori di musicisti che da soli tengono insieme il concerto mentre io, da una posizione privilegiata, da spettatore privilegiato, ci faccio delle intrusioni narrative che tengono separate le canzoni: non le collegano, bensì le separano.
Perché provata? Provata è la musica che abbiamo provato insieme, è la musica che io stesso ho provato a raggiungere attraverso quell’esperienza di lento apprendimento della intonazione, dalla quale sono stato messo alla prova, che mi è rimasta impressa nella testa e nel fiato in certi momenti complicati, difficili, che mi ha dato ritmo e quindi anche l’esistenza, permettendomi di risparmiare energie, e che riesco perfino a canticchiare quando scalo perché mi permette di regolare il respiro… Canto dappertutto, insomma, tranne che in bagno!
Quali sono ogni volta gli interlocutori a cui si rivolge e quali le esigenze, le urgenze che la spingono a vestire di musica le parole?
Be’, intanto ci sono delle parole, delle frasi di certe poesie che ho scritto, che ce l’avevano già dentro una musica, un po’ come accade ad uno scultore: la forma sta già nel blocco, lo scultore la raggiunge attraverso delle sottrazioni. Ecco, la musica è certe volte già nel verso e basta che io lo pronunci perché mi suggerisca un motivo senza che mi sforzi ad estrarre necessariamente musica da esso: è il verso che da solo si presenta con questa forma e con questa cadenza musicale. Quindi approfitto di questo dono spontaneo del verso a me stesso e ci affianco della musica, molto semplice, nobilitata poi, in questo caso, dall’arrangiamento di Stefano Di Battista.
Per quanto riguarda gli interlocutori, per me sono quelli che si muovono da casa e vengono a sentire qualcosa che io racconto, affacciato da quel ballatoio del palco: mi rivolgo esattamente a ognuna delle persone presenti. A me manca completamente la nozione di “pubblico” perché quelle persone che sono in sala sono tutti pezzi unici, persone singole, con le loro storie, che hanno deciso di farsi tenere compagnia quella sera, proprio in quel momento, da uno di passaggio, un “narratore di passaggio”. Dunque io non ho l’astrazione per arrivare a pronunciare la parole “pubblico” ma mi rivolgo a ciascuna persona cercando di valere il prezzo del loro tempo: non del biglietto, ma del loro tempo… è molto più ambizioso…

Foto Cesare Abbate

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Erri e le parole.
Le parole: è ad esse che il suo nome e il suo essere scrittore e poeta si legano indissolubilmente con particolare attenzione al loro significato, alla loro etimologia, alla loro applicazione viva, quotidiana. È immutata la relazione che esiste tra voi o è rintracciabile una evoluzione in tal senso, correlata e influenzata dal suo percorso d vita?
Credo che sempre di più cerco di tenere insieme le parole e le cose, sempre di più pretendo che le parole siano esattamente quelle e corrispondano nella maniera più fedele possibile a quello che sto dicendo, raccontando, con una più stretta relazione tra la parola e il suo immediato significato. Non uso astrazioni, concetti astratti, mi servono le cose concrete, l’esperienza fisica che le parole descrivono come risultato finale di quella stessa esperienza. E nel muovermi in tal senso non invento l’argilla, ma prendo quella che mi è stata fornita dal deposito dei giorni, delle ore, degli anni.
Il mio ideale di coincidenza tra parola e cosa è quello che c’è nella scrittura sacra: esiste un vocabolo in antico ebraico che tiene insieme sia la parola che il fatto compiuto, un punto in cui il dire e il fare sono la stessa cosa; un punto irraggiungibile della identità tra la parola e la cosa, ma quello è il traguardo più alto: io mi aggiro alle pendici di quel vertice.
Qual è lo strumento più efficace per lei, col quale si trova più a suo agio per divulgare le parole, valorizzarle, tra letteratura, teatro, musica e potremmo aggiungere anche cinema considerato che proprio La musica provata è anche un film?
Parole: sempre il vocabolario italiano, sempre quello è il tesoro del quale mi sento comproprietario. Io non sono un cliente della lingua italiana, sono proprio un residente dentro quella lingua, ci abito, quello è proprio il mio luogo, la mia casa e di conseguenza resta quello il mio punto fermo. Poi, sì, mi faccio anche qualche passeggiata azzardata fuori di quel vocabolario aggiungendoci delle musiche o delle immagini, ma la parola è l’inizio e anche il traguardo finale della mia vocazione a raccontare, e prediligo la carta e la penna perché scrivo ancora a mano sul quaderno.

Foto Cesare Abbate

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Erri e il teatro.
Ancora sulla parola, questa volta teatrale: quali gli elementi che la colpiscono e affascinano maggiormente come autore e spettatore, e quale il testo o i testi che trova più intriganti o che le sollecitano riflessioni?
Il teatro è affascinante perché è un racconto che, però, avviene attraverso le voci dirette degli attori, dei protagonisti, quindi è una specie di scrittura in cui lo scrittore non c’è, è scomparso e al suo posto ci raccontano la storia direttamente le voci delle persone sulla scena, pertanto deve essere chiara, avere una straordinaria capacità di sintesi, essere attraente. Insomma il teatro è la meraviglia, è la forma d’arte più antica, la più affascinante per me e da napoletano mi considero privilegiato perché ho avuto e ho la possibilità di attingere, da spettatore, al teatro napoletano. Ognuno di noi che si mette a scrivere qualcosa di teatro dipende, discende dal teatro napoletano; in particolare, nel mio caso, dal teatro di Eduardo De Filippo le cui commedie biascicavamo rappresentandole in casa da bambini, conoscendole a memoria e questo ha contribuito a formare il mio modo di raccontare.
E tra gli autori, i drammaturghi più recenti?
No, non ho trovato nessuno che mi aiuti… (e qui per pochi attimi si ferma, come in ascolto del suo pensiero emotivo) Perché quello (NdR il teatro eduardiano) è legato all’infanzia, alla maniera in cui si è formato l’umorismo, lo spirito, il sorriso, l’ironia, è una discendenza nutritiva: sono stato nutrito da quel tipo di intrattenimento, da quell’intrallazzo, da quello scherzo, da quello spiazzamento delle parole, da quelle situazioni comiche.

Erri e i ricordi.
Qual è il ricordo che con maggiore fatica riporta alla mente e quale, invece, quello che vorrebbe declinare all’infinito in tutte le forme espressive che sperimenta, abita, attraversa?
Non ho una hit-parade dei ricordi, nel senso che quando ho un ricordo – e non sono il proprietario dei ricordi, ma arrivano all’improvviso dopo che me li sono abbondantemente scordati – ecco, se sono molto belli e forti mi viene voglia di scriverli, e allora affido a quel formato la tenuta, la durata di quel ricordo, che persiste tutto il tempo che scrivo, e anche il congedo da quel ricordo alla fine della scrittura. Quindi i ricordi che mi sono affiorati con forza li ho tutti scritti; sono debitore di questo deposito della memoria di cui non ho la chiave, che non posso andare a consultare come un archivio, ma ogni tanto, quando mi rilascia qualche dettaglio, mi permetto di farlo durare di più con un racconto.
Se potessimo spiarla mentre lavora, compone, scrive, cosa scopriremmo di lei?
Che non scrivo mai ad un tavolo (sorride)! Scrivo sul letto, per terra, su una poltrona, a pancia sotto, insomma in tutte le maniere, tranne che al tavolo.

Ileana Bonadies

Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14, Napoli
contatti: www.teatrobellini.it

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