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In prima nazionale al Teatro Argentina di Roma la pièce tratta dall’opera dell’autore americano e diretta da Massimo Popolizio, efficace radiografia cinico-sentimentale dell’America post depressione del ’29, nella brillante interpretazione della Compagnia Orsini.

Foto di Filippo Milani

Foto di Filippo Milani

È una pila di mobili accatastati alla rinfusa, tra cui si distingue una poltrona tappezzata con fiori rossi, un’arpa, un tavolo di legno massiccio in verticale, a tratteggiare l’atmosfera in cui la storia  è ambientata all’apertura del sipario del Teatro Argentina di Roma che, fino a domenica 8 novembre – prima di una tournée nelle maggiori città italiane – ospiterà Il prezzo, uno dei capolavori del drammaturgo americano Arthur Miller, prodotta ed interpretata dalla Compagnia Orsini e firmata dalla regia di Massimo Popolizio.
Essi appartenevano ad un uomo morto da più di dieci anni, ora devono essere stimati da un perito e venduti, in fretta, dai suoi due figli, Victor e Walter, perché all’interno di un edificio che dovrà essere demolito. Sarà pertanto la trattativa sul “prezzo” al quale liquidarli, il focus intorno al quale l’intera vicenda si snoderà, nonché il pretesto per fare emergere a poco a poco i “valori” dei quattro protagonisti dell’opera – Victor, Esther, Walter e Solomon -,  archetipi di un’ epoca non così lontana dalle incertezze del nostro tempo.
Calati in una scenografia domestica ridotta all’essenziale, occupata solo da un lavandino, delle sedie, una poltrona, una scala che porta a un pianerottolo e una porta che immette in un’altra stanza, i personaggi sono tutti resi con grande efficacia dagli interpreti e dal sapiente lavoro di regia.
Victor (un eccellente Massimo Popolizio, che assomma i ruoli di attore e regista) è un poliziotto di mezza età prossimo alla pensione, con più dubbi che certezze, dal tono di voce medio, il passo dinoccolato, testa china, occhi bassi, un po’ di pancetta. Per tutto lo spettacolo resta con la sua divisa che, portata con disaffezione e trascuratezza, si presenta quale segno distintivo di un lavoro non voluto ma condizionato dal senso di responsabilità familiare che lo ha spinto a trovarsi subito un impiego per mantenere ed accudire il padre, uomo d’affari caduto in disastro dopo la crisi del ’29. Incarnazione dell’uomo semplice, che gode con moderazione dei piaceri della vita (come quando si lascia andare all’ascolto di un brano “ballabile” da un grammofono stile anni trenta), è l’uomo onesto, inesperto di affari, di poche pretese e preda, per questo, di Esther (una focosa Alvia Reale), moglie dispotica ed esasperata per la vita mediocre che le fa condurre.
E sono proprio queste caratteristiche della sua personalità a farla emergere come contraltare di Victor sin dall’inizio, quando irrompe con il passo deciso, sbraitando e battendo i tacchi, al collo un filo di perle e in dosso un abito arancione sgargiante, l’abito nuovo, segno di quel desiderio di svolta sociale ed economica cui morbosamente anela ma che tarda ad arrivare: “L’unica cosa che conta è il denaro” dirà più volte, sprezzante, al marito che annuisce a testa bassa. La pensa come lei l’ebreo Solomon (un carismatico Umberto Orsini), antiquario novantenne chiamato da Victor a stimare i beni del padre. Solomon compare in scena con un soprabito usurato e una busta di plastica con cibarie varie, è arguto, pungente, ironico e si muove con agilità tra i mobili usati, con i quali mostra di avere molta confidenza e distacco professionale, come chiarisce subito a Victor: “Con i mobili usati non si può essere sentimentali”.

Foto di Filippo Milani

Foto di Filippo Milani

Quando ormai il marito, la moglie e il broker sembrano cristallizzati nei loro ruoli e Victor sta per definire con l’antiquario la vendita dei mobili, ecco che irrompe Walter (un impetuoso Elia Schilton), con un coup de théâtre che dà una svolta inattesa agli eventi.
Ritratto come l’arrivista spregiudicato, l’incarnazione del “sogno americano”, il prepotente che si è fatto da sé recidendo ogni radice e ogni legame affettivo, l’uomo, meno dotato del fratello negli studi, si è lanciato nella scalata per il successo, affermandosi come chirurgo di tutto rispetto, più interessato a fare quattrini con gli anziani, diventando proprietario di tre case di riposo, che ad accudire il vecchio genitore. Cinico, impeccabile, perfetto, ben ritratto dagli occhiali squadrati con una spessa montatura nera che ne rimarcano la spigolosità del carattere, la giacca nera stretta in vita e lo sguardo torvo e diffidente, calca i passi sul palcoscenico sentendosi una divinità in persona, imponente e pieno di sé. Ripiomba nella vita di Victor, dopo un silenzio decennale, per esprimere un parere sul “prezzo” dei mobili paterni, per il semplice gusto di esercitare ancora una volta il suo potere sul fratello e ridicolizzarlo per il suo “spirito di apostolica abnegazione”;  subito, a differenza di Victor, rinuncerà alla sua eredità su quei beni, privi come sono, ai suoi occhi, di qualunque interesse. Ecco delinearsi allora due opposte concezioni della vita: per Victor fondata sui “valori”, per Walter sui “prezzi” (come ben lascia intendere la frase che, sprezzante, dice a Solomon, dopo aver saputo a quali svantaggiose condizioni Victor stava vendendo i mobili: “Ruba ai ciechi, tanto loro non se ne accorgono”) e inevitabile palesarsi, a questo punto, lo scontro: tra i due fratelli si scatenano feroci duelli verbali di sciabola e fioretto, in un gioco al massacro che travolge il pubblico in un vortice di rivelazioni, rivendicazioni, menzogne e frangenti di ilarità che rafforzano l’empatia spettatore-attori, mentre aleggia l’imminente distruzione dell’edificio, sottolineata dall’incalzare di sinistri boati fuoricampo e dall’affievolirsi delle luci sulla scena. Con un finale che spiazza il pubblico, lasciandolo tramortito e un po’ commosso.

Elvira Sessa

Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina, 52, Roma
contatti: 06 6840 00311 – http://www.teatrodiroma.net/

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