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All’Orologio di Roma l’analisi scarna del Teatro Scientifico tra vite qualsiasi logorate da impulsi di “ordinaria follia”.

Foto Manuela Giusto

Foto Manuela Giusto

A introdurre La bambola e La putana, spettacolo del veronese Teatro scientifico – Teatro Laboratorio, due atti unici scritti dallo psichiatra Vittorino Andreoli e tradotto in messinscena da Isabella Caserta e Francesco Laruffa alla sala Gassman dell’Orologio (fino al 15 novembre), c’è l’avviso “vietato ai minori”: un ammonimento che lascia intendere possibili turbamenti sensoriali, emotivi e psicologici, data la tematica sessuale indirizzata all’abuso della donna, argomento quanto mai drammaticamente attuale.
Il primo segmento, La bambola, che si snoda tra un salotto accennato da divano-letto anni Settanta, minibar e attaccapanni, prevede una prestazione di Laruffa che dà voce a una maschilità schizofrenica, subconscia, impostata in una mise – giacca, cravatta e ventiquattrore – da uomo medio, ordinario, che lascia trasparire, solo al sicuro delle mura domestiche, la propria patologica attrazione feticista per una bambola/manichino (la stessa Caserta con immobile rigidità muscolare), manipolata e forzata (fisicamente) a soddisfazione delle proprie frustrazioni sociali, relazionali e pulsionali. Tra le pieghe psichiche del protagonista, assetate di volgarità parlate, agite, concepite, che sfociano urlanti in una morbosa e autodistruttiva gelosia materiale e sentimentale, univoca e malsana, concretizzata poi in violenza omicida, si percepisce un’ispirazione alla possessività totalizzante, cieca, viscerale, ancestrale e carnale dell’Orgia pasoliniana che, però, fatica a realizzarsi sulla scena, nonostante l’impegno attoriale, restando in potenza con un ensemble narrativo che subisce la frammentazione interna di azioni consumate nell’atto visivo e performativo senza penetrare la complessità intima e celata di una mentalità deviata.

Foto Manuela Giusto

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Cambio di registro linguistico ed estetico per La putana, assunto nel corpo e nella vocalità (con accento e testualità dialettali venete) di Isabella Caserta che, in abiti succinti e parrucca fucsia, amalgama – a tu per tu col pubblico – confessioni spudorate di vita da strada (con aggiunta di segreti del mestiere), molestie infantili, immoralità e ipocrisie sociali, con toni e gestualità ironiche a copertura (talvolta tendente all’eccesso) di una solitudine esistenziale vittima cosciente e consenziente di discriminazione e pregiudizio estraneo. Immersa nel buio scenico di una simbolica notte ai confini (sonori) di una stazione ferroviaria, margine spazio-temporale liberatore e rivelatore di umane bassezze, la fisionomia interpretativa della Caserta si fa specchio sincero di una realtà amara subita (e da noi percepita, anche se superficialmente) con rassegnazione nel corpo, con pacatezza nell’identità e con lucidità nella coscienza. Soprattutto nella coscienza, dove risiede quell’io con cui, alla fine, in silenzio, in privato, si fanno i conti. Prima che arrivi il prossimo cliente e scenda l’oscurità.

Nicole Jallin

Teatro dell’Orologio
Via dei Filippini, 17/a, Roma
Contatti: 06 687 5550 – www.teatroorologio.com/

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