“La sposa sola”, due madri allo specchio
A Sala Ichos, per la regia di Salvatore Mattiello, uno spettacolo poderoso che intreccia, con emozionante sapienza, le trame di Medea con quelle di Filumena Marturano.
Nel turbinio vorace dell’attuale società iconica, che, contrassegnata da colori di plastica e da illusioni ottiche commerciali, tutto fagocita – simboli, segni, voci – in un perenne ed inutile tentativo di superamento inesauribile di se stessa, non esiste azione più sovversiva ed originale che spegnere la luce; non è oscurantista il cercarsi dentro.
Ed è col buio nella sala di San Giovanni a Teduccio che viene al mondo La sposa sola, intensa messinscena – ancor in programma oggi alle 19 ed i prossimi sabato e domenica – scritta e diretta da Salvatore Mattiello, frutto di un importante studio svolto sulle parole, sui movimenti, sulle anime di due delle più famose ed incivise dramatis personae che il teatro di tutti i tempi ci abbia consegnato: la barbara, greca Medea, la napoletana Filumena Marturano.
Sull’assito di Sala Ichos – che si fa nave dell’intera umanità errante – una stupenda Teresa Addeo, distesa al suolo, è tutte le donne del mondo, quasi figura archetipica del genere; con un solo movimento, con la modulazione della voce e del registro linguistico, lei è ora la puttana nata dalla penna di Eduardo, ora la regale principessa della Colchide. Ma è sempre donna, capace di concepire nella mente e nel corpo, capace di darsi pienamente e con voluttà completa, capace di nascondere i pensieri profondi.
E sulla barca della vita non è sola: la luce svela quattro compagni di viaggio (Giorgia Dell’Aversano, poliedrica e seducente, Giuseppe Giannelli pulito e denso, Pietro Juliano con la sua gravitas alata, Rossella Sabatini profetica), che i marosi rendono or congiunti, or disciolti, intrecciandone e districandone le vite e le parole; ed essi stessi sono scenario, mondo, vita entro cui si dipana l’esperienza esistenziale parallela delle due spose, alternativamente subentranti in un’unica carne.
Ad emergere chiaramente sono le due nature di Filumena e Medea: la prima, interamente frutto del contesto storico e sociale di appartenenza, divenuta puttana con la connivenza della famiglia e costretta a divorare il disgusto dei sudori e dei fetori altrui, desiderosa di una normalità che si estrinseca nella maternità – quantunque imperfetta e non legittimamamente manifestabile -, è la regina della dimensione privata, domestica, familiare; i dilemmi che accendono l’animo di Medea sono invece universali – come è tipico del teatro greco – e portano in scena i temi dell’allontanamento dalla patria, dell’abbandono dei cari (“Chi va non tradisce, va perché deve andare”), del timore di ciò che è diverso, dell’utilità politica che si afferma a discapito della giustizia, dell’ipocrisia delle buone maniere imposte da tutte le civiltà cosiddette civilizzatrici (“Ci sono figli che per l’umanità funzionano meglio da morti”).
Due donne diverse, nate diverse e giunte ad esiti esistenziali diversi; eppure, pur alla luce di tutte le alterità, una sotterranea potenza numinosa le accomuna: non la maternità diversamente esperita, non certo la dimensione erotico-sentimentale, ma il loro essere profondamente e potentemente donne, meravigliose creature di dubbio e di fede disposte a percorrere con coerenza, fino nel baratro più buio, il cammino di vita intrapreso.
Uno dei pregi più evidenti della pièce risiede nella sua stessa scrittura: da un punto di vista lessicale, la cura nella scelta delle parole e delle espressioni – quasi labor limae dell’anima – è frutto di logorio intenso e tutto proteso a segnalare, tra progressivi allontanamenti e riavvicinamenti, il parallelismo tra i due mondi umani, Corinto e Napoli, e i sistemi di valori di riferimento; ma, in più, ciò che davvero avvince lo spettatore sono, in primo luogo, la varietà e la ricchezza di momenti e movimenti e, in seconda battuta, il costante relazionarsi della scena con la platea, che assurge al ruolo necessario e non inessenziale di testimone dei fatti narrati.
In chiusa, meritorio di una significativa menzione è il puntuale soccorso delle musiche originali di Gino Protano, in grado di accompagnare con acuta cognizione le vite sulla scena.
Da vedere.
Antonio Stornaiuolo
Ichos Zoe Teatro
Via Principe di Sannicandro, 32/A – San Giovanni a Teduccio, Napoli
Inizio delle rappresentazioni ore 21.00 (dal venerdì al sabato), ore 19.00 (domenica)
Info e prenotazioni: Ichòs Zoe Teatro 3357652524; 081275945.