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In scena al Teatro Mercadante di Napoli fino al 20 dicembre, per la regia di Luca De Fusco, un’ampia e ricca riproposizione dell’unica, celeberrima trilogia pervenutaci di Eschilo.

Foto Fabio Donato

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Le Coefore si aprono sulla tomba di Agamennone, dove, in compagnia del fedele amico Pilade (Gianluca Musiu), è sopraggiunto Oreste (Giacinto Palmarini, la cui interpretazione, pur apprezzabile nei momenti di minor peso drammatico, pare piuttosto piatta nei brani più ricchi di pathos), il quale si rivolge in preghiera ad Ermes, impetrando la collaborazione del dio per l’impresa che ha in mente; ma, nelle retrovie, un gruppo di donne, guidate da Elettra, recanti offerte al sepolcro del sovrano, impedisce ad Oreste di trattenersi oltre alla luce del sole e gli impone di acquattarsi dietro una colonna.
Si squaderna dinanzi agli occhi degli spettatori una sostanziale differenza scenografica rispetto alla piece dell’Agamennone (qui la recensione): il portone della reggia, che, lì, sul fondo della scena, rappresentava una presenza costante e quasi certificato di autenticità dell’opera, qui viene rifunzionalizzato – anche se con una scelta quantomeno discutibile – in un videowall che, a seconda dei momenti, riproduce video, immagini e colori. Tra l’attualizzazione e il kitsch, di conseguenza, il confine rischia di diventare davvero sottile.
Il lamento di Elettra (una bella e intensa Federica Sandrini, che però perde intensità col procedere dell’opera) si svolge interamente tra due poli: da una parte il senso di smarrimento per lo stato miserando in cui versa (“Sempre si nutre di tormenti il mio cuore“), dall’altra la sottile speranza e il dolce desiderio di rivedere quell’Oreste che, unico, può far pagare l’ingiustizia ai due assassini e riportare la giustizia in città.

Guida dei suoi pensieri è l’anziana corifea (Angela Pagano, la cui figura e le cui parole si presentano come acutamente “eschilee”), che, nella sticomitia con la sorella di Oreste, è capace di alludere, ordire, suggerire o dissuadere, ovvero capace di indirizzare le parole della giovane verso un esito felice.
E le libagioni e le preghiere di Elettra portano frutto, poiché, incapace di trattenersi occulto alla vista e in parte già svelato alle donne per un suo ricciolo lasciato sulla tomba del padre, Oreste viene allo scoperto deciso ad abbracciar la sorella ed a metterla a parte dei suoi progetti di vendetta.
Ma il riconoscimento non può che esser fonte di gioia parziale; la corifea invoca il silenzio, amico prezioso per chi trama e necessario per cogliere di sorpresa Egisto e Clitemnestra. Parte qui il famoso kommòs a tre voci delle Coefore, in cui Oreste, Elettra e la corifea si alternano nell’invocazione di Agamennone, il padre giusto di Argo, il padre tanto amato dalla città, a cui si domanda sostegno nella legittima causa della sua vendicazione (“Oh padre, ascoltaci e appari alla luce. Stai al nostro fianco contro i nemici“). La danza delle ballerine della compagnia Körper riempie la scena in modo da produrre, per un attimo, un’avvincente sensazione di compartecipazione sinestetica da parte del pubblico in sala.

Foto Fabio Donato

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Oreste, dopo aver saputo che la regina, preda di un sogno funesto (la corifea racconta che Clitemnestra ha sognato di generare una serpe, la quale poppasse sangue e latte dal suo seno), aveva deciso di inviare la delegazione di coefore a portare doni sul sepolcro di Agamennone, chiarisce il suo piano: egli si presenterà alla reggia con Pilade, fingendosi un mercante straniero. Chiederà ospitalità e recherà la falsa notizia dell’avvenuta morte di Oreste. In tal modo potrà portare a compimento la vendetta, portando morte ai due assassini del padre, secondo le indicazioni ricevute da Apollo, suo mandante di giustizia.
La prima parte dell’inganno riesce perfettamente: un Clitemnestra (Elisabetta Pozzi) abbigliata in maniera lussuosissima – a un tempo, segno di dissipazione economica e morale – accoglie gli stranieri, pur piangendo la presunta morte del figlio.
Entra nella reggia con gli ospiti, manda a chiamare Egisto.
Inviata ad assolvere questo compito è l’anziana nutrice di Oreste (una Dely De Majo semplicemente perfetta) che, balzata per metà fuori dal suolo, intesse un fitto dialogo con il coro: dapprincipio ella ripercorre con dolore inestinguibile i dolci momenti di tenerezza dedicati a quel bimbo (“Non ho mai sentito un dolore come questo”); poi, però, su suggerimento della corifea, si risolve a dire al suo nuovo e odiato padrone di venire senza scorta,
Egisto (Paolo Serra) entra in scena col medesimo espediente della nutrice (ovvero da una delle botole sul suolo, secondo uno schema ormai leggibile e ripetitivo; un tal espediente, sensato e giustificabile per l’ingresso di taluni personaggi, pare altrove solo un effetto scenico privo di adeguata motivazione) vestito incomprensibilimente in pelle nera, intenzionato ad interrogare di persona gli stranieri. Trasuda da lui un sentore di onnipotenza, il vezzo del dominio assoluto e irrazionale; ma la sua hybris non può restare impunita.
Il coro di donne, ben prevedendo il sangue venturo, si allontana in un angolo.
I morti uccidono i vivi”. È questo il messaggio che un servo reca alla regina, la quale comprende immediatamente ciò che si sta compiendo in scena, un destino. In breve Oreste è sull’assito, per un attimo tribolante dinanzi al seno della madre, ma poi deciso a far giustizia. Il loro scambio di battute non si afferma con l’emozione che ci si attenderebbe; il dovere sopravanza anche qui il pathos. Eppure la madre, trascinata violentemente dal figlio nella casa, riesce a preannunziare al figlio un triste vaticinio: le “cagne furiose della madre” lo tormenteranno.
E infatti, le Coefore si chiudono con altri due corpi morti in scena, con l’urgenza avvertita da Oreste di purificarsi presso il santuario di Apollo delfico, ma soprattutto con la visione delle Erinni: mostri vendicatori – i cui abiti neri ed arzigogolati rappresentano appieno ciò che le Furie classiche rappresentavano –  della madre che lo incalzano, costringendolo ad abbandonare lo spazio scenico.

Foto Fabio Donato

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Le Eumenidi – che seguono dopo una breve pausa – vedono impegnati sulla skené ancora una volta Oreste, supplice alla statua di Apollo, e le Erinni dormienti, alla cui guida è una sempre evocativa Angela Pagano; siamo dinanzi al tempio di Apollo di Delfi, laddove una figura di donna viene ancora una volta partorita dal suolo: si tratta della Pizia (interpretata da Anna Teresa Rossini, magnetica ed affascinante) che, entrata nel santuario per ricevere le indicazioni del dio, ne esce fuori trasfigurata nel viso e annichilita dallo spavento, quasi trasformata in bambina timorosa da donna che era.
Tremendo, non posso parlare” è il suo vaticinio; ella rimette il giudizio allo stesso dio di cui è sacerdotessa. E sarà infatti il dio (Claudio Di Palma) a rassicurare Oreste, esortandolo, innanzitutto, a non disperare (“Sono stato io a dirti di colpire il petto di tua madre“) e soprattutto a lasciare Delfi per recarsi ad Atene, dove la dea Atena si farà carico di istituire un giusto processo; il giovane si dà alla fuga.
Abbandonata la scena Oreste e lasciate in asso le Erinni, l’anima di Clitemnestra (qui resa in maniera eccellente dalla Pozzi) giunge sul proscenio a reclamare dalle sue cagne che non si lascino sfuggire il matricida. Ché il loro sonno ha permesso ad Oreste la fuga ed ora esse debbono slanciarsi al suo inseguimento. La corifea delle Erinni, allora, destatasi, è oggetto delle dure offese di Apollo, che scaccia quei mostri (“Voi, odiose a tutti gli dei, portate altrove la vostra sozzura“) lontano dal suo santuario, cominciando, tra le altre cose, a sostenere che il diritto di vendicare il padre sia predominante rispetto a quello di pagare, per il supplice, per l’assassinio della madre.

Un rapido cambio di luci modifica lo scenario: Oreste, sopraggiungendo dalla platea, si getta in scena ai piedi di Atena (Gaia Aprea, la cui notevole carica drammatica viene sminuita da un abito inutilmente avveniristico, inadeguato per vestir la greca dea figlia di Zeus), la quale però, al sopraggiungere delle Erinni – il cui epiparodo genera spavento – lascia che le porte che l’avevano svelata si richiudano. Sulle porte è proiettata un’immagine di Atena che va distruggendosi, mentre sull’assito le Erinni assaltano funeste l’omicida della madre.
Ma la dea torna presto visibile; e presto, informatasi sui motivi dei contendenti, professa parole salvifiche e rivoluzionarie: sia interrotto il continuo ciclo di uccisioni d’onore, sia deposta la violenza – sempre generatrice di violenza – come mezzo di risoluzione di conflitti, sia istituito un nuovo tribunale, l’Areopago, deputato a giudicare sui reati di sangue, che faccia finalmente una vera e civile giustizia sul caso.

Foto Fabio Donato

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Sul palco si celebra il processo del matricida (inutilmente replicato sugli schermi che sono alle loro spalle): da una parte a difesa di Oreste giunge Apollo, il quale professa con forza l’idea greca per cui il vero genitore sia solo il padre, mentre la madre non sarebbe altro che nutrice del seme in lei innestato; dall’altra perorano la causa di Clitemnestra le sue furiose cagne.
Concluso il dibattimento, Atena, dopo aver precisato che il suo voto andrà in favore di Oreste ( e giova ricordare che Atena sia figlia del solo Zeus) e che il matricidia sarà salvo anche in caso di voto pari, chiede al pubblico in sala di esprimere il giudizio: questo è certamente il brano più grottesco dell’intera messinscena. Sulla skenè, alle spalle degli attori, sono i già menzionati due schermi; il voto viene così rappresentato: appaiono dapprincipio, su uno dei due led, sei voti verdi, e, sull’altro, un’inquadratura in diretta di un metà della platea;  poi, sul secondo schermo, sei voti rossi, e, sul primo, l’altra metà della platea. Curioso conteggio dei voti, considerando che nessuno in sala abbia alzato la mano.
Ad ogni modo, Oreste viene così giudicato non colpevole; il giovane si dispone dunque a tornare ad Argo, non senza aver prima giurato, in nome dei suoi concittadini, che una sincera amicizia legherà sempre la sua madrepatria con Atene.
Le Erinni, sconfitte, paiono voler scatenare tutta la loro furia sulla città di Atena, ma la dea, con parole accorte, promette loro di ospitarle in città, laddove saranno onorate come dee.
Le Furie concordi si uniscono al canto lirico di Atena, tramutandosi così da Erinni in Eumenidi, dee benevole per la città, in un crescendo canoro su cui calerà il sipario.

Questo secondo episodio della trilogia eschilea appare drammaturgicamente diverso: una maggior attenzione all’elemento moderno e tecnologico (gli abiti futuristici o, comunque, certo meno “greci” di quelli usati per l’Agamennone, lo sfondo tramutato in schermo interattivo, il fondo in plexiglass del pavimento di scena non più occultato, come nella piece che dà il via alla trilogia, con della terra, ma in vista) e un maggior lavoro di ricucitura tra i due brani eschilei sono la cifra fondamentale della messinscena. Un tal percorso, però, piuttosto che rendere attuale il messaggio di Eschilo (e in che modo potrebbe mai essere moderno se in scena sono lasciati gli dei antichi, se nella bocca dei protagonisti sono lasciate parole di saperienza antica e pensieri tipici dell’antichità?) pare soltanto strizzare l’occhio al pubblico contemporaneo, non riuscendo a mantenere l’alta dignità dell’Agamennone né segnalandosi per un credibile ammodernamento del dettato eschileo. Questa messinscena  quasi “televisiva” – come riporta il regista De Fusco – mal si adatta alla grandezza dell’opera originale e rischia di svilirne l’intero portato poetico.  Ne consegue che questa seconda parte dell’opera sia a metà del guado, ancora indefinita, tra la Grecia e noi, non troppo lontano dal testo greco, non troppo lontano dal gusto del pubblico dell’oggi. La commistione tra i due tempi (passato e presente) sa di esperimento, che tende a sperimentare sempre più, ma che finisce schiavo del suo sperimentalismo. Al punto che non si sa se gli applausi, pur scroscianti e meritati per aver intrapreso questa titanica impresa drammatica, siano da assegnarsi maggiornamente ad Eschilo, alla regia, agli attori o al pubblico stesso.

Antonio Stornaiuolo

Teatro Mercadante
piazza Municipio – Napoli
biglietteria: 081 551 33 96 – biglietteria@teatrostabilenapoli.it
orari e date: 03 Dic. ore 17.00 – Coefore e Eumenidi; 04 Dic. ore 21.00 – Coefore e Eumenidi; 05 Dic. ore 19.00 – Coefore e Eumenidi; 06 Dic. ore 18.00 – Coefore e Eumenidi; 08 Dic. ore 18.00 – Agamennone / ore 20.15 – Coefore e Eumenidi; 09 Dic. ore 17.00 – Agamennone; 10 Dic. ore 17.00 – Agamennone; 11 Dic. ore 21.00 – Agamennone; 13 Dic. ore 18.00 – Agamennone; 15 Dic. ore 18.00 – Agamennone / Ore 20.00 – Coefore e Eumenidi; 16 Dic. ore 17.00 – Coefore e Eumenidi; 17 Dic. ore 17.00 – Coefore e Eumenidi; 18 Dic. ore 21.00 – Coefore e Eumenidi; 19 Dic. ore 19.00 – Coefore e Eumenidi; 20 Dic. ore 18.00

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