“Albania, casa mia”, storia di un padre, di un figlio, di un popolo
L’amore profondo per la propria terra attraverso gli occhi di chi è lontano ma non dimentica, in scena al Teatro Argot di Roma fino al 13 dicembre.
“Albania, casa mia” era la scritta in caratteri cubitali vermigli che Aleksandros Memetaj, interprete e drammaturgo dell’opera omonima, aveva letto da adolescente sui muri di Fiesso d’Artico, il paesino veneto dov’era emigrato per sfuggire alla miseria del suo Paese. Una scritta che sa di spregio, che suona come: “Albanesi, andatevene: la vostra casa non è qui”. Un indice puntato contro lo straniero ma soprattutto contro l’ “albanese venuto in Italia a rubare il lavoro e a portare droga e armi”.
Ora Sandro-Aleksandros, “artista di parole” come si definisce lui stesso, fa attraversare quella frase al pubblico del Teatro Argot – dove la pièce è in scena dal 1 al 13 dicembre per la regia di Giampiero Rappa e l’aiuto regia di Alberto Basaluzzo -, la riempie di episodi suoi e del padre, intrecciandoli in un’unica voce che, mescolando la lingua italiana con l’albanese e la parlata veneta, racconta, con precisione cronachistica e pennellate poetiche, lo smarrimento di un popolo dopo la feroce dittatura di Enver Hoxa, l’esodo sul peschereccio “Meredita” dalla città natale di Valona, lo sbarco al porto di Brindisi in quel lontano 25 febbraio 1991, e, poi, la fatica dell’integrazione.
Gioia, silenzi, pianti, urla, sussurri, irrompono sulla scena e calano lo spettatore nella prospettiva e nel limbo del migrante, portandolo nei panni di chi quella scritta rossa se l’è vista sbattuta in faccia ogni giorno, dai giochi dell’infanzia all’ambiente di lavoro.
Così, Sandro esprime, in una intensa ora di monologo, il rapporto controverso con le sue origini, con la “madre Albania”, al contempo mitica patria dell’eroe Scanderbeg e terra povera e spietata.
E lo fa senza servirsi di supporti musicali o scenografici ma coinvolgendo tutto se stesso, le sue energie vocali e fisiche: la mimica facciale e del corpo – dai salti di gioia all’inginocchiarsi implorante – e i toni di voce ora accesi, ora smorzati, ora distaccati.
Tutta l’azione scenica è concentrata su di un tappetino nero su cui è disegnata la sagoma dell’Albania: è lì che si muove Sandro, sotto un fascio di luce fissa calata dall’alto che spezza il buio della sala valorizzando al tempo stesso la solitudine e la determinazione del protagonista, che magnetizza la platea con le sue fitte descrizioni di odori (dei gamberetti marciti e dei piedi scalzi, sudati nella stiva della nave emigrante) e di sentimenti (il freddo durante il viaggio verso l’Italia; l’affetto del papà che stringeva lui, fagottino febbricitante di sei mesi, tra le sue braccia; la paura di essere scoperti dalla polizia allo sbarco in Italia).
A spettacolo finito, l’artista se ne va e resta sul palco quel tappetino nero.
L’Albania lì ritratta appare, ora, come la sagoma di una vittima innocente, che aspetta la replica successiva per rigenerarsi sul palcoscenico e condividere con lo spettatore le sue tradizioni e speranze, facendogli comprendere che, ormai, sono patrimonio di una casa comune.
Elvira Sessa
Teatro Argot Studio
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