“Anelante” di Antonio Rezza: tensione teatrale tendente all’infinito
Al Teatro Vascello di Roma, fino al 17 gennaio, il nuovo lavoro di RezzaMastrella per un patologico vortice comunicativo di parole e voci.
Oltre un mese di repliche in programma (fino al 17 gennaio) al teatro capitolino di Monteverde per l’ultima fatica di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, prodotto da RezzaMastrella, Fondazione TPE e la Fabbrica dell’Attore CPT Teatro Vascello, a testimoniare il sodalizio artistico quasi trentennale (che si allarga a perlustrazioni filmiche, editoriali, fotografiche, scultoree) tra la creatrice di materia visiva, di spazi, volumi e quadri scenici surreali generati da intimi liberatori impulsi reattivi assorbiti e concessi, poi, a uso e abuso dell’autore e performer, deformatore consapevole di continuità anatomica, di linearità drammaturgica, di logica linguistica, che quell’habitat lo vive, se ne nutre, si confonde con (imprevedibili) incursioni e contaminazioni antropologiche diagnostiche di corpo e parola sempre stressati, sempre ricurvi.
Seppur meno incisivo e indelebile di precedenti lavori, Anelante ricalca la provocante e sperimentale impronta stilistica della coppia che ritorna, attesa, scardinando e corrodendo la narrazione con ironia ardente e dirompente che si rincorre su un tappeto di dinamiche e tematiche attuali da cui ne estrae un’essenza (dis)umana, socialmente anestetizzata, silente e sonnolente. Anelante celebra il teatro di RezzaMastrella quale rovesciamento continuo, ipnotico, contagioso e oltraggioso della realtà attraverso l’uso sfuggente, criptico, sviscerante, sfacciato dell’idioma. E celebra anche la genetica farcitura dell’istante col frammento performativo in contorsione visiva (sul palco illuminato da Mattia Vigo), sonora e sensoriale (di urla strazianti e variazioni vocali immerse in semantico non sense), con conseguente – per lo spettatore – smarrimento smaliziato, rintracciamento scettico di senso e auto-difensivo attaccamento al significato del detto.
Anelante è luogo di virtualità bidimensionale protratta su un pavimento/lavagna e definita in policromia da separé di pannelli scomponibili – cui si aggiunge un’isolata croce sbieca sulla destra – che accolgono linee oblique e finestre/cornici. Anelante è l’umano teso alla spasmodica idealizzazione di se stesso; vivente disinibito moltiplicato nella compresenza “orgiastica” attoriale di Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo Di Norscia, assistenti conniventi di creative nevrosi rezziane. Anelante è participio e partecipante non finito di un presente irregolare nel quale è vittima e artefice decadente (nel fisico, nella moralità, nella mente) di comunicazione verbale (e non): Anelante è voce. Voce metamorfica, lettrice incosciente e delirante del proprio suono, che parla (parla, parla, pervertita) di pensione e di numeri, di grandi della terra e di quotidianità rituali, di un Freud perverso e di generazionali affetti conflittuali discussi al buio, dentro un elmo da palombaro di carta luccicante. È parola maniacalmente eccitata da se stessa.
In questa commistione scenica e carnefice di forme e sostanze, Antonio Rezza si dona senza risparmio a una ritmica logorrea priva di tempo, depositata nel tempo, anarchica e magmatica, che scorre inarrestabile come fluido organico e flusso coscienzioso; si dona alla fugacità contenutistica impressa in inclinazioni posturali di corpi e lemmi, fonemi e silenzi. E il silenzio, quando si concede l’invasione di qualche manciata di secondi, si riempie di una sordità menzognera. Perché Anelante è vocabolo perpetuo per bocca (la sua) e orecchie (le nostre). Dunque, non fidiamoci troppo di Rezza quando sta zitto, neppure a spettacolo concluso. Il silenzio è bugia sospesa.
Nicole Jallin
Teatro Vascello
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