Bianca Nappi: cinema e teatro sono due linguaggi di un unico amore. Irrinunciabile. [INTERVISTA]
In Some Girl(s), in replica fino al 14 febbraio al Piccolo Eliseo di Roma, l’attrice si confronta con un personaggio complesso, incisivo e seducente: «Ogni ruolo è sfida, fatica, impegno: una ricchezza professionale e personale».
Procede nel traffico romano con passo spigliato e voce brillante, in direzione del Piccolo Eliseo, Bianca Nappi, deciso profilo di corpo e pensiero recitativo del teatro nostrano (oltre che di TV e cinema), attualmente sul palco del rinato storico teatro di via Nazionale con Some Girl(s) di Neil LaBute, per la regia di Marcello Cotugno (qui la recensione). Tra poco vestirà l’abito rosso fuoco della seducente Tyler, una delle ex fidanzate rintracciate da Guy (Gabriele Russo), protagonista maschile della pungente commedia d’oltreoceano, “adultescente” prossimo alle nozze e pieno di apparenti sensi di colpa nei confronti delle precedenti partner.
Insieme all’attrice pugliese, che si annuncia a marzo all’Argentina di Roma nella produzione dello Stabile d’Abruzzo “Tante facce nella memoria” diretto da Francesca Comencini, riflettiamo sulle sfumature del testo statunitense e dei personaggi, sulla prospettiva di sguardo della donna, e sull’essere interpreti oggi della drammaturgia contemporanea nel teatro italiano.
Tra le femminilità della pièce di LaBute, Tyler è la più sensuale, la più carnale, la più prorompente, fisicamente e caratterialmente. Come si è avvicinata a questa personalità?
«Mi sono lasciata molto condurre dal testo. La scrittura di LaBute mi ha guidato nell’approccio al personaggio e agli espliciti momenti rivelatori dell’indole sensuale e determinata (e se vogliamo anche stereotipata) di questa donna. Un carattere forte a cui bisogna approcciarsi, dal punto di vista interpretativo, con la giusta delicatezza, per non eccedere né in timidezza né in sfacciataggine. In questo senso è stato fondamentale il lavoro fatto sulle precise didascalie, che addirittura muniscono la femminilità di Tyler di un’irruenza sessuale più estrema di quella che a noi, in termini di messinscena, sembrava necessaria per comunicarne l’identità e la personalità. Dalla lettura del testo, dall’analisi registica e dal ragionamento collettivo, ci premeva restituire questo personaggio come un riflesso al femminile di Guy: una donna che conserva la sua stessa scaltrezza; una donna che, come lui, si preoccupa più di sé che dell’altro; una donna che dedica la vita all’essere perenne amante in cerca di storie disimpegnate. L’uno e l’altra sono le metà di un rapporto fuori dai canoni tradizionali, tanto privo di formalità quanto di quelle piccole ipocrisie che spesso accompagnano la relazione uomo-donna. Due metà che, forse per paura, non riescono mai a togliersi la maschera e costruire legami forti».
Il quinto incontro, quello con l’ultima ex fidanzata, non compare in scena ma su internet (precisamente su www.bit.ly/Part4reggie). Come mai questa scelta?
«LaBute ha scritto il quinto episodio dopo la pubblicazione del testo. Marcello Cotugno ha riflettuto su questo aspetto e ha optato per una scelta registica molto interessante, ovvero inserirlo online. Questa soluzione permette, da un alto, di mettere direttamente in dialogo due linguaggi molto diversi e distanti tra loro, come il teatro e la virtualità del web; dall’altro di rispettare il ruolo dello spin-off voluto dall’autore, che ha provenienza dalla drammaturgia di “Some Girl(s)”, ma che non è interno alla pièce».
Some Girl(s) è un testo contemporaneo, ovvero appartiene a quella categoria drammaturgica ancora poco considerata dal settore teatrale (ed editoriale) italiano, nonostante la sempre positiva risposta del pubblico.
«La drammaturgia contemporanea prevede un approccio diverso sia da parte di chi lo rappresenta, sia da parte degli spettatori: spesso risulta essere molto destrutturata e difficile da mettere in scena, però racconta storie nelle quali ci identifichiamo, storie che parlano di noi, della nostra vita, senza simboli né intellettualismi. Proprio come quella di “Some Girl(s)”. E il fatto stesso che questo spettacolo sia programmato per tre settimane al Piccolo Eliseo (e devo dire che il Teatro Eliseo sta facendo un lavoro notevole perché offre un cartellone con tanti testi nuovi) porta con sé un significato importante in risposta all’interesse e alla partecipazione del pubblico per la drammaturgia contemporanea e, nello specifico, per questo lavoro partito come produzione del Teatro Bellini di Napoli, con due stagioni al Piccolo Bellini e poi, già dall’anno scorso, proseguito con una tournée in molti importanti teatri italiani».
Tuttavia, persiste una certa tendenza nel teatro italiano al preferire testi noti che garantiscano, in termini di spettatori, un rischio minimo.
«Siamo un popolo molto ancorato alla tradizione, al teatro di regia. Il nostro è un Paese che, almeno per le ultime generazioni, è più di registi che di drammaturghi. Questo non significa che all’estero, a fronte di una realtà testuale qualitativamente e quantitativamente più ampia, non ci sia una carenza di altre autorialità o professionalità di talento. Tuttavia, da noi, di fronte alla messinscena di nuove scritture promettenti (anche internazionali), si tende a puntare sul sicuro, si tende a privilegiare scelte produttive e artistiche di testi classici, magari con chiavi di lettura inedite. In Italia c’è il gusto del bel teatro, fatto con la bella scenografia, i bei costumi, la bella dizione, che giustamente deve continuare a vivere: ma non è l’unica forma espressiva esistente. La scena italiana deve dedicarsi anche alla drammaturgia contemporanea. È fondamentale, e per ora non lo fa ancora abbastanza».
Nella sua carriera ha recitato per grande e piccolo schermo, e per la scena. Meglio lavorare al cinema, in televisione o a teatro?
«Ho avuto la possibilità di interpretare molti ruoli sia sullo schermo che sul palcoscenico e penso che per un attore rappresenti una grande occasione, perché permette di potersi misurare con linguaggi completamente diversi, entrambi difficili, che stimolano in modo complementare e allenano delle parti diverse di te. A teatro la parola e il gesto dell’attore sono fondamentali: egli ha consapevolezza e pieno controllo di quel che sta accadendo dinnanzi al pubblico, in un tempo inarrestabile, dall’inizio alla fine. E ogni sera è uno spettacolo diverso, unico, con spettatori diversi ed energie diverse. Sullo schermo innanzitutto c’è l’immagine: l’immagine filtrata dalla regia che la racchiude nell’inquadratura. E se qui l’attore è meno “direttamente responsabile”, in questo senso, del processo produttivo, ha però il difficile compito di riuscire in pochi minuti a realizzare quella scena nel miglior modo possibile, perché poi si passa definitivamente alla successiva. Lavorare a un film o a uno spettacolo è diverso, certamente, ma personalmente mi affascinano tutti e due, il cinema e il teatro. Ognuno pone sfide diverse, esigenze diverse, fatiche diverse, e mettersi alla prova con entrambi, per un attore, non può che arricchirlo professionalmente e umanamente. Penso che il teatro, con cui ho cominciato questo mestiere, sia l’espressione più naturale per un interprete, ma non potrei sacrificare il cinema, perderei qualcosa di me. Quindi cerco di distribuire al meglio le mie energie in modo paritario, in nome di un amore unico: quello per il mio lavoro».
Nicole Jallin