Dis-fare il Teatro: Ubu Roi secondo Latini
Il testo di Alfred Jarry al Teatro Vascello di Roma si fonde con la sensibilità artistica di Roberto Latini, per un acuto pastiche creativo.
Roberto Latini è ideatore, artefice, performer, co-interprete di un incontro con l’Ubu Roi di Alfred Jarry, lavoro datato 2012 e riproposto dal 4 al 7 febbraio al romano Teatro Vascello, che espone mente e coscienza alla destabilizzazione, al disorientamento, al coinvolgimento condiviso dell’impatto con la concreta credibilità dell’assurdo, del non realistico, dell’immaginario.
Una produzione di Fortebraccio Teatro con la collaborazione del Teatro Metastasio Stabile della Toscana, che dà forma a un’unione curiosa, originale, e anomala con l’opera (narrante l’impresa e la disfatta degli Ubu alla conquista illegittima della corona di Polonia) caposaldo del teatro dell’assurdo, composto dall’allora liceale drammaturgo francese. E Latini non si limita a una rilettura, a un nuovo adattamento, a una personale riscrittura registica della storia, ma l’accoglie su di sé come eredità testuale verso la quale intesse una relazione di de-strutturante responsabilità creativa. Un’eredità abbracciata con un pastiche di sensibilità artistiche (di concezione, di contatto, di linguaggio, di sentire) riconducibili a Shakespeare, ad Artaud, a Leo de Berardinis, a Ionesco, a Bene, alla Socìetas.
A darne corpo, voce e movimento, un ensemble di personalità con estremizzata vocazione al non-sense (e memorabile recitazione dagli attori), che già per effetto di decisa contrapposizione cromatica – di costumi, luci e scena (scarna, asettica), a cura di Marion D’Amburgo, Max Mugnai e Luca Baldini – inneggia alle tinte di un surrealismo bizzarro alla Dalì, e include: una caricaturale famiglia(-fantoccio) reale con un Re Venceslao (Lorenzo Berti) munito di trono-carriola – ma trapuntata – e megafono per corona; una Regina Rosmunda (Sebastian Barbalan) istrionica e premonitrice di sventure coniugali; e un Principe Bugrelao (Guido Feruglio), quattordicenne (con barba) con fare da tontolone e attitudine alla vendetta amletica.
Ci sono poi un Capitano Bordure (Marco Jackson Vergani) claudicante nel fisico e nella parola, prima complottista poi fuggiasco e alleato di uno Zar Alessio in veste di samurai (ancora Barbalan) dispensatore di colpi di grazia; e una coppia di Romeo e Giulietta in versione orsi antropomorfi (Vergani e Fabiana Gabanini). C’è Padre Ubu in cappotto di pelle stracciato cui Francesco Pennacchia dona un cinismo grottesco ma raffinato, una brutalità ingorda ma sottile, e una follia energica ma assuefatta; e c’è Madre Ubu con tendenze sanguinarie proprie di una burlesca Lady Macbeth, e con straordinaria fisionomia interpretativa di Ciro Masella. Ci sono maschere con fattezze da primate cui spesso si associa una mise da drughi kubrickiani, e c’è la presenza dello stesso Latini quale Pinocchio incatenato a Carmelo Bene, che si affida al microfono per dar voce a commoventi passi del Bardo, che si aggira anche in sella a una bici come una clownesca scheggia felliniana, che corre e crolla (tra suoni e musiche di Gianluca Misiti), osserva, somatizza e riflette (su) Ubu Re come personaggio e artista, teatrante e spettatore, carne umana e scheletro carbonizzato dall’assurdità di un’esistenza sociale avida (senza redenzione) di potere, di dominio, di denaro. Come testimone di un teatro del non-luogo e del non-tempo, di un “teatro senza spettacolo”, di un teatro (“scienza delle soluzioni immaginarie”) consapevolmente farsesco che immerge nell’ironia la tragedia dei protagonisti, e spalanca ai nostri occhi l’interrogativo sull’essere, sulla realtà, sull’arte: «Ormai Ubu esiste, inevitabilmente».
Nicole Jallin
Teatro Vascello
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