Sogno di una notte di mezza estate
Per una riscrittura di Ruggero Cappuccio e con la regia di Claudio Di Palma, il Teatro San Ferdinando ospiterà fino al 21 febbraio la celebre messinscena del bardo di Stratford-upon-Avon, mirabilmente interpretata da Lello Arena ed Isa Danieli.
“ἐπάμεροι· τί δέ τις; τί δ’ οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ / ἄνθρωπος”
“Creature di un giorno. Chi è, cosa non è? Sogno di un’ombra è l’uomo“
PINDARO, Pitica VIII, v. 135 e s.
Quando gli occhi dell’uomo si schiudono dinanzi alla meraviglia, l’emozione suscitata da detta meraviglia può abbagliare, rendere improvvisamente loquaci, condurre all’afasia o sprofondare gli animi nelle tenebre. È rischio grande (“very dangerous”) presentarsi all’appuntamento con la meraviglia con occhi vergini: si corre il pericolo di veder la propria vita trasfigurata, sbalzata, non più disposta a tornare nell’alveo della quotidianità. Ebbene, in realtà, è esattamente questo il compito – se di compito si può parlare – che spetta ab ovo al Teatro: trasformare gli spettatori, conducendoli per mano in ogni abisso e su ogni vetta, facendo loro esperire ogni stilla di vita, muovendo il loro animo in tutte le direzioni, fino al punto di rimandarli a casa nuovi, più ricchi e più umani, meno superbi e meno soli.
E Sogno di una notte di mezza estate, in scena nello storico Teatro San Ferdinando fino al 21 febbraio, offrirà al pubblico null’altro che maraviglia: magico e intricato, pur nella breve estensione, è l’ipotesto shakespeariano, assolutamente sublime la riscrittura di Ruggero Cappuccio, tradotta in azione secondo la regia di un Claudio Di Palma fedele e consonante col testo del drammaturgo nativo di Torre del Greco; ma, su tutto, si staglia magistrale, impareggiabile la performance di due campioni dell’ars dramatica quali Lello Arena ed Isa Danieli – coadiuvati da una squadra di attori di altissima levatura – al punto che l’assito stesso sembra vibrare e godere per la propria partecipazione ad un momento di teatro così alto, così eccezionale, così catartico.
E finanche lo stesso spettatore – ovvero il meravigliato – non può far altro che gioire. E tentare di raccontare, trasformandolo in parola, l’entusiasmo, ben consapevole del labile confine che esiste tra racconto ed encomio.
Ma innanzitutto urge una premessa (“ci vorrebbe un proloco”, ovvero un prologo).
Il Sogno: affezione tra le più peculiari dell’animo umano, squarcio verso ogni altrove, spazio drammaturgico senza spazio e tempo poetico senza tempo; la sua vita è morte apparente che disvela e che ammanta, che rischiara e confonde. E lui, il Sogno, è sempre soggetto, è sempre oggetto: chi può negare ad un sogno di esistere? eppure chi potrà confutare che egli viva perennemente subiectus hominibus?
Nell’intera produzione drammaturgica di Shakespeare l’esperienza onirica si fa spazio puntualmente, ora avanzando in maniera più sotterranea ora prendendo il centro in maniera più esposta, e sempre con un portato di nozioni, emozioni, presentimenti che non possono essere considerati come secondari nell’economia delle messinscene; e in tal senso il Sogno, a voler considerare anche il solo titolo, è paradigmatico nel dimostrare come le visioni notturne, pur se irrazionali e addirittura folli – così come l’amore dei giovani innamorati – sono vere: e come oggetto di sogno che come soggetto di storie che hanno autonoma dignità di esistere.
È in questo ricchissimo e fecondo universo di energie nascoste e di personaggi – o persone? – siti a metà strada tra l’elemento razionale e quello “notturno” (emblematico è il caso del folletto Puck) che Cappuccio affonda la penna, levigando la trama del Sogno e dipingendo sulla lingua del poeta britannico coi colori scoppiettanti, polidirezionali, languidi, gnomici del multiforme napoletano.
In tal modo, perfettamente bilanciati e perfettamenti risonanti, al “liric boiling” fa eco il “père cata père”, mentre al “sugar spell” si alternano i “comme si brutto”, gli “impeti aggravanti de lu pesamiento”, gli “io ‘a jetto ‘a coppa abbascio”, in un quadro che è reso ancor più prezioso dall’italiano cesellato, scavato, ricercato, nobile dello scrittore napoletano.
Il prodotto di una tale riscrittura (in cui si accenna all’Amleto, a Misura per misura, al personaggio di Falstaff) risulta di tale immediatezza eppure così allusivo ed enfatico – ed è già nell’originale il ricorso alla tecnica metateatrale – da lasciare sulla bocca della platea solamente parole di lode e di ringraziamento, occhi felici, mani in tripudio.
La regia di Claudio Di Palma ha un merito tutt’altro che secondario. Essa asseconda il testo di Cappuccio con una fedeltà ed una perizia tali da esaltarne il messaggio di fondo, che è in realtà un messaggio triplice: la piéce ci insegna, in prima battuta, che la nostra anima – fatta “della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni“ – ci parla attraverso vie non sempre razionali, come quella del sogno, e per dirci cose non sempre intellegibili; in seconda istanza, apprendiamo ancora una volta che l’amore vero – come in Romeo e Giuletta – non può in alcun modo essere scalfito. Ma, tertium datur, ciò che è ancor più essenziale è che “non c’è più commozione al mondo di un giocattolo rotto“; e “pure nuje siamo pazzielle scassate“.
L’elemento visivo dell’ambiente e dei personaggi è, inoltre, felicemente perfezionato dalla cura zelante per le scene (curate da Luigi Ferrigno), dall’indovinata scelta dei costumi (ad opera di Annamaria Morelli), oltreché dalla pregevole scelta delle musiche realizzata da Massimiliano Sacchi.
Lello Arena, nelle vesti di un Oberon a cui è stata “falstaffata la panza“, è fisicamente e drammaticamente impeccabile: i suoi tempi, le sue espressioni del viso, i movimenti in scena e i moti dell’animo sono di una sagacia e di un sapore straordinari; in lui ars e ingenium si uniscono in un connubio perfetto e vivo, che sa di strada, di Shakespeare e di pensiero profondo.
Immensa, al suo fianco, è Titania, una Isa Danieli dinanzi alla cui interpretazione occore applaudire più forte che mai: bellissima nell’eleganza dei suoi passi, verace nel suo periodare su registri i più vari, vera luce splendente sulla scena e motore di essa.
L’intero primo atto è illuminato dalla loro fulgida recitazione; il secondo atto, di contro, li vede attorniati più attivamente sull’assito dal folletto Puck (Fabrizio Vona) e dall’allegra brigata di elfi (Renato De Simone, Enzo Mirone, Rossella Pugliese, Antonella Romano) che ha preso ad abitare in casa loro: compagni di scena meritevolessimi, la cui duplice funzione di dramatis personae e marionette permette di creare quella sovrapposizione di piani razionali e irrazionali così decisiva per la riuscita del Sogno.
Una piéce bellissima.
Un inno al teatro, alla bellezza, alla meraviglia.
Imperdibile.
Antonio Stornaiuolo
Teatro San Ferdinando
Piazza Eduardo de Filippo, 20 | 80139 Napoli
Contatti: www.teatrostabilenapoli.it