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Fino al 21 febbraio, il Teatro Argentina di Roma ospita il testo di Stefano Massini per un coro di undici femminilità dirette da Alessandro Gassmann.

Foto De Martini

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Non è cosa nuova o rara imbattersi nella sensibilità drammaturgica di Stefano Massini, capace di accogliere in sé cronache reali per restituirle alla scena con una “scrittura civile”  che dona densità alle sfumature etiche, morali, emotive, ma anche mentali e rigidamente umane, della nostra società. Una scrittura serrata che tratta per via direttissima, senza sconti né edulcorazioni, le ingiustizie, i disincanti, le congetture, gli egoismi contemporanei.
Ora, al Teatro Argentina di Roma, i suoi 7 minuti (spettacolo che ha debuttato nel 2014 a Bologna) riguardano un fatto accaduto alle operaie tessili di Yssingeaux, Alta Loira, alle quali il nuovo corpo dirigenziale chiese di rinunciare a sette minuti di pausa giornalieri. Punto di partenza per una discesa nelle pieghe di un compromesso apparente sopportabile nel quale, però, serpeggia il ricatto indegno di cedere non solo, e non tanto, il proprio tempo (sono “solo sette minuti”, è il meccanismo losco di auto-persuasione), ma, a piccole dosi, perché l’obiettivo è creare un precedente, quei diritti del lavoro tanto faticosamente guadagnati: come una goccia subdola e silenziosa (dei pochi, dei potenti, dei padroni) che scava nella roccia della dignità umana (dei molti, dei sottoposti, dei dipendenti).
Alessandro Gassmann prende le redini registiche di questo importante e attualissimo tema, e avvolge nove operaie e due impiegate – il Consiglio di fabbrica – nello spazio molto realistico di uno stanzone/spogliatoio industriale con tavolo, sedie, panche, armadietti, distributore di bibite difettoso, neon, e vetrata polverosa con affaccio scuro sul reparto di produzione. In più, tra palco e platea, un inframezzo trasparente per proiezioni (le scene si devono a Gianluca Amodio, le luci a Marco Palmieri, i costumi a Lauretta Salvagnin, le videografie a Marco Schiavoni) conclude un complesso estetico e stilistico che lascia spazio a echi di ruvidezza brechtiana; sigilla un habitat di “pesante aria d’attesa” della portavoce Bianca/Piccolo (anzi, Blanche in origine, ma qui italianizzata come anche i nomi  delle altre), a rapporto dai capi; e una camerata di abitudinarie condivisioni di donne tanto diverse per esperienze, per ambizioni o rassegnazioni, per espressione di femminilità, quanto simili per stessa paura futura: perdere il lavoro.

Foto De Martini

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Battute rapide, intrecciate, sovrapposte, danno vita a un amalgama caratteriale di coralità vocali, di corpi, pensieri e movimenti contrastanti e complementari, ben diretto e ponderato dalla regia, e rispettosamente sostenuto dalle interpreti. E, seppur ridondino un po’ di enfasi drammatica le parentesi introspettive di alcune di loro, con cali luminosi e avanzate sonore (originali di Pivio&Aldo de Scalzi), la scena prende (in)visibile forma di coscienziosa morsa di ragionamento, di conclave di teste (lungo una notte) necessario per  ammutolire l’ingannevole reazione di pancia, riconoscere il marcio del profitto tra le righe sorridenti della falsa buona fede, e rompere il meccanismo di potere contorto e corrotto – se una bugia detta cento volte diventa verità, la parola “crisi” ripetuta all’abuso si veste da alibi – che spaccia il legittimo compenso per lussuosa concessione.
A innescare la miccia della riflessione, una superba Ottavia Piccolo: mater/leader di ammonizioni affettuose, simbolo di equilibrata resistenza alla fatica e sacrificio manuale, di rispetto umano, di rigore intellettuale che non è cocciutaggine, di ribellione concettuale che non è lotta aprioristica. Accanto a lei, ammiriamo Paola Di Meglio, Silvia Piovan, Olga Rossi, Balkissa Maiga, Stefania Ugomari Di Blas, Cecilia Di Giuli, Eleonora Bolla, Vittoria Corallo, Arianna Ancarani, Giulia Zeetti.

Nicole Jallin

Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina, 52 – Roma
Contatti: 06 684 000 346 – www.teatrodiroma.net

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