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Dal 16 al 28 febbraio il Teatro Bellini di Napoli ospita il lavoro diretto da Luca Zingaretti, su testo di Alexi Kaye Campbell, per raccontare il destino, l’amore, la fedeltà e il perdono.

Fonte foto Ufficio stampa

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È un fragoroso scroscio di applausi quello che saluta la fine dello spettacolo The Pride, in scena al Teatro Bellini di Napoli ancora fino a domenica 28 febbraio. Merito certamente della popolarità, anche televisiva, del regista e interprete Luca Zingaretti, amato dal pubblico di ogni età, in questa occasione corso a vederlo recitare dal vivo in una storia che – all’inverso – per i suoi contenuti si fatica a credere (alla luce di quanto sta accadendo in queste ore alle Camere e in piazza intorno al dibattito sulle unioni civili che sta dividendo il nostro Paese tra favorevoli e contrari) possa avere così tanti sinceri estimatori. Ad essere infatti sviscerato nel testo del greco Alexi Kaye Campbell, tradotto da Monica Capuani, è l’amore omosessuale, raccontato attraverso due storie ambientate in periodi differenti – la prima nel 1958, la seconda nel 2008 – i cui protagonisti sono gli stessi attori per entrambe – oltre a Zingaretti, anche Valeria Milillo, Maurizio Lombardi, Alex Cendron – che ripropongono, pur in una distanza di cinquanta anni, una medesima dinamica relazionale, a voler mettere a confronto i cambiamenti registrati nel lungo periodo – a livello sociale e governativo – e di conseguenza le ricadute sulla vita di ciascuno dei personaggi.

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Dalla tematica scottante e di forte attualità, lo spettacolo, dunque, si inserisce in un filone che facilmente potrebbe etichettarlo come manifesto politico, come bandiera multicolore a favore dei diritti delle coppie gay, ma in merito ecco Zingaretti immediatamente chiarire che, in tal senso, ha lavorato proprio per non mettere accenti sulle parti più militanti della drammaturgia, affinché maggiormente emergesse l’aspetto sentimentale. L’amore nel suo significato più universale, associato ad una ulteriore riflessione: quella sulla identità; sulla ricerca di se stessi nella vita che si sta conducendo. Sulla veridicità delle scelte che si compiono – con conseguente assunzione di responsabilità – al di là di ciò che l’opinione pubblica, o semplicemente la maggioranza,  vorrebbe o ritiene giusto.
Non è un caso, pertanto, che tante siano le domande che i protagonisti si pongono; che tanti siano gli interrogativi a cui cercano di dare risposta per superare l’impasse in cui sono caduti nel momento in cui la vita li ha messi dinanzi ad una nuova consapevolezza. Prima neanche solo sfiorata, ma ora deflagrante in ogni suo aspetto, sia nei confronti di sé che rispetto agli altri. Da qui interessante il parallelo che si sviluppa a cavallo di due epoche differenti, in cui diverse sono le condizioni politiche così come i valori predominanti, grazie al quale è possibile tracciare un paragone immediato che, nelle intenzioni del regista, intende spronare a fare un punto sulla propria esistenza; come una corda lanciata al pubblico affinché non rimanga uno spettatore passivo ma ad essa vi si aggrappi e colga la visione della messinscena quale pretesto per riflettere a sua volta.

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E dai riscontri degli spettatori sembra che efficacemente siano state premiate le scelte compiute nel lavoro di adattamento – a partire dalla lingua, a cui si è voluto conferire spontaneità e naturalezza anche a costo, come spiega la traduttrice, di banalizzare alcune termini  dall’inglese – a cui Zingaretti, così come afferma, ha inteso regalare una impronta cinematografica, per noi sicuramente evidente nel montaggio delle diverse scene tra loro, meno invece ad esempio nell’aspetto scenografico a cura di Andrè Benaim (su tutti valga la scena del parco dove a fare da sfondo è una riproduzione che ci è parsa più consona ad una opera lirica che non ad una messinscena che vorrebbe puntare sulla immediatezza di ogni sua espressione comunicativa).
Indubbia l’idoneità di tutti e quattro gli attori a reggere il doppio ruolo loro assegnato, nonostante la lunga prova a cui siano stati sottoposti da un testo che non certo si distingue per brevità e che forse avrebbe giovato di un maggiore lavoro di riduzione, soprattutto per rispondere in pieno a quelle che erano le chiare finalità registiche espresse, ovvero dare vita ad uno spettacolo “vivo, che respira, che sa arrivare allo stomaco, al cuore e alla mente dello spettatore” scongiurando la noia e la distrazione. Pericolo non pienamente scansato che inevitabilmente incide sulla valutazione complessiva del lavoro.

Ileana Bonadies

Teatro Bellini
Via Conte di Ruvo, 14 – 80135, Napoli
Info  e contatti: www.teatrobellini.it – botteghino@teatrobellini.it – 081 54 99 688

 

 

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