Dentro il “Porcile” di Valerio Binasco, l’eredità di Pasolini
Faccia a faccia con l’accidia esistenziale e la tenerezza del disgusto, nella versione del regista ligure in scena al Vascello di Roma fino al 28 febbraio.
Con un’originale e sentita esplorazione del testo pasoliniano, partorito dall’autore in un periodo (era il ’67) in cui l’immobilità imposta dalla convalescenza per un’ulcera dava sfogo a un intenso dinamismo creativo, Valerio Binasco affronta di petto il Porcile di PPP con uno spettacolo asciutto, esteticamente conciso, che rinnega metafore, citazioni o intellettualismi, per restituirne senza filtri un dramma umano, interiore e indicibile.
Resterà al Teatro Vascello fino al 28 febbraio, questa coproduzione del Teatro Metastasio e dello Stabile del Friuli, in collaborazione con Spoleto58 Festival dei 2Mondi. E fino ad allora, il pubblico romano potrà assistere a una schietta messa a nudo del malessere originario, misterioso e inesprimibile di Julian (un lodevole Francesco Borchi), figlio venticinquenne borghese, straniato da tutto e da tutti: né obbediente né disobbediente ai genitori (assai ammirevoli Mauro Malinverno e Valentina Banci), ma indirettamente carnefice della loro logorante impotenza; né interessato all’affetto testardo dell’innamorata Ida (ben calibrata Elisa Cecilia Langone); né coinvolto dalla realtà socio-politica che lo circonda, con relativa lotta generazionale (e di classe) tra giovanile attivismo reazionario e vecchio piattume capitalistico.
La scena vuota (pensata da Lorenzo Banci, con luci di Roberto Innocenti e musiche di Arturo Annecchino), che accoglie solo una panca in pietra al centro, poi sostituita da arredi mobili (tavolino da esterno, poltrona, e massiccia tavolata con sedie), disegna, in delicati toni pastello, un indefinito interno/esterno della tedesca Villa Klotz con servitù (Pietro d’Elia). Centro di visite e incursioni esterne, la casa assume invisibili contorni di una prigione aperta per una condanna segreta, quella di Julian, che lo schiaccia a terra in (auto)difensiva posizione raccolta o fetale. Perché è sull’esistenza nascosta del giovane che si focalizza la regia; sul suo essere inguaribile creatura scapigliata e autodistruttiva, corrosa da dentro dalla zooerastia: puro amore istintivo (anche fisico), incondizionato e imprescindibile verso i maiali – per lui -; patologia morbosa e disgustosa devianza – per gli altri -. Un dolore che si riversa su un Padre, grande industriale con passato criminale, ora tenero e sofferente quanto inabile genitore, e su una Madre consumata a tal punto dall’apatia del figlio da ridursi quasi automa.
E se gli stessi maiali possono sembrare richiamo al disperato e viziato abbrutimento morale e sociale (alla George Grosz), qui Binasco, senza alcun concreto simbolismo, né rimando o grottesca storpiatura, li rende reale causa e cura di un disagio dello stare al mondo. Allo stesso modo, non vi è biasimo su Hirt, ex-nazista ora rintracciato da Hans-Guenther (Franco Ravera) come Herdhitze – con faccia e identità nuova -, cui Fulvio Cauteruccio dona un fare da distinto mafioso; non vi è giudizio sull’intesa aziendale con Klotz, e sui loro intrighi di profitto loschi e ipocriti. Essi mantengono un’eleganza spensierata e festosa, cromaticamente (anche nei costumi, di Sandra Cardini) rinvigorita, anche dinnanzi alla tragedia riferita dal contadino Maracchione (Fabio Mascagni). Ed è interessante come Binasco metta in rilievo non tanto la dialettica colpevolezza-innocenza dei personaggi, quanto la martoriante incapacità (molto attuale) di non (sapere o volere) accettare la diversità: meglio divorarla o lasciare che si divori. L’importante è che non restino prove. Così le pene svaniscono – perché, in fondo, ciò che non si vede, non esiste-, e ansie e frustrazioni se ne andranno di conseguenza. Dunque, silenzio: che riprendano le danze del fallimento umano.
Nicole Jallin
Teatro Vascello
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