Conversazione alla morte, ovvero inno alla vita
Antonio Ferrante porta in scena la parola di Giovanni Testori, assolo drammatico e poetico che invita a ripensare l’esistenza senza la paura della fine.
Quando i luoghi della vita si fondono e confondono con i luoghi del teatro, e le parole stra-ordinarie di Giovanni Testori si incarnano in un attore d’esperienza come Antonio Ferrante, ecco un monologo come Conversazione con la morte trasformarsi – contro ogni presagio – in un inno alla vita e la “fine” tradursi in nuovo inizio di cui non avere paura.
Frutto dello studio e della ricerca personale condotta da Ferrante sul poliedrico intellettuale milanese, tra i più rappresentativi del Novecento, lo spettacolo – o meglio, quello che il suo protagonista preferisce definire «la testimonianza di un lavoro di una vita» – è andato in scena al Teatro Elicantropo di Napoli dal 18 al 21 febbraio, e fa parte della “Trilogia per la parola” (che oltre a Conversazione con la morte, comprende Interrogatorio a Maria e Factum est), composta da Testori dal 1979 al 1981, e coincide con la conversione del drammaturgo alla religione cattolica, successiva alla morte della madre.
Evento tragico che fortemente lo segnò, non è un caso infatti che proprio questa perdita occupa un posto centrale all’interno dell’oratorio che, spogliato di ogni elemento scenico superfluo, affida alla sola parola e alla musica, di Battiato così come di Mozart, che a tratti fa da contraltare, la forza sua intrinseca lasciando all’unico uomo in scena – tra vecchi copioni, fiori ricordo di vecchi omaggi all’apice del successo e maschere – il peso e al contempo la responsabilità poetica di tradurla in “cosa” palpabile, che attanaglia ed emotivamente coinvolge il pubblico, attivamente partecipe di una confessione che si fa corale pur restando intima e lirica. Determinante in tal senso l’interpretazione commossa (nel significato essenziale di “mossa insieme” alla parola drammaturgica) di Ferrante, che non lascia mai il testo fuggirgli via, ma anzi lo indossa e fa proprie come se quelle frasi fossero esattamente le sue. E quell’attore – che assurge a simbolo universale, un tempo riflesso di un teatro segno di perdizione e vanità, ma oggi invecchiato e quasi cieco e profondamente segnato dai dolori che gli ha riservato l’esistenza – riflettesse con veridicità la sua immagine, innanzitutto di uomo e artista con 50 anni di storia sulle spalle e la volontà di lasciare ai giovani – «non per fare il maestro», si schernisce – un messaggio esemplare che possa insinuare la conoscenza del lavoro autoriale di Testori, forse oggi troppo poco rappresentato e noto alle nuove generazioni.
Dunque una fusione di esperienze proprie o recuperate attraverso la pratica attoriale, di verità teatrali e di verità oggettive, di laicismo e religiosità, si rivela la messinscena e come un flusso di coscienza si dipana, senza che a volte una apparente logica ci sia a contenere le riflessioni condivise ad alta voce, eppure tutte tenute insieme da un’unica tensione, esistenziale e letteraria. Contemporaneamente sofferenza e conforto. Ultimo respiro e buio.
Ileana Bonadies
Teatro Elicantropo
Vico Gerolomini 3, Napoli
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